Intervista al giornalista e docente milanese, autore di Mass Effect, interessante saggio su interattività ludica e narrativa
Giuseppe Romano è un giornalista e consulente d’impresa per la comunicazione. È anche docente di comunicazione interattiva presso l’Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia. Personalmente l’ho conosciuto nel 2013 grazie al suo libro Mass Effect, pubblicato da Lupetti. Il testo, dedicato a interattività ludica e narrativa, citava le mie avventure testuali come esempi di gamification applicata allo storytelling. Il discorso era più ampio e voleva dimostrare come anche i videogiochi con grafica e sonoro mirabolanti, e quindi visivamente assai impattanti, non siano altro che “testi interattivi”.
Qualunque opera di intrattenimento, infatti, in principio è un testo, che viene poi applicato e trasformato in codice, immagini, suoni, eccetera. Un film è un copione, un fumetto una sceneggiatura, un videogioco un codice sorgente, e così via, Anche un romanzo, opera destinata a mantenere la propria forma letteraria, nasce come sinossi, cioè descrizione sintetica di quella che sarà la storia da sviluppare.
Gamification al Dams di Imperia
Dopo aver ringraziato il professor Giuseppe Romano per l’attenzione che mi aveva dedicato nel suo libro, l’ho invitato a presentarlo a Imperia. All’epoca, nella mia città, c’era ancora il Dams, luogo ideale per parlare di arte e cultura e quindi di gamification. L’evento fu inserito nel programma dell’ID Fest, l’Imperia Dams Festival, rassegna primaverile che, finché è durata, ha sempre avuto un bel successo. (Il Dams è chiuso dal 2016, ma questa è un’altra storia.)
Repubblica di Genova, grazie alla gentilezza di Donatella Alfonso, dedicò una bella pagina alla presentazione. Ne parlarono ovviamente anche La Stampa e Il Secolo XIX. Successivamente il professore e io fummo invitati a parlare di gamification al convegno genovese della FIMA, dove presentai il prototipo di videogioco didattico sulla raccolta differenziata sviluppato per l’occasione.
Per promuovere l’evento del Dams, convinsi il professor Romano a rilasciarmi una intervista sul tema. Il pezzo, uscito su Mentelocale, è offline da qualche tempo, ma ora potete rileggerlo qui. Si tratta di una bella chiacchierata sul ruolo dei videogiochi nella cultura moderna, tra didattica e marketing, che sono poi le due anime della gamification. Buona lettura!
Gamification tra didattica e marketing
Si scrive gamification, si legge studio e applicazione degli stili e delle dinamiche di funzionamento dei videogiochi a campagne di marketing, strategie di comunicazione e vari altri processi creativi e produttivi. Un tema sempre più attuale e cruciale, che sta creando nuovi posti di lavoro e prospettive inedite per l’industria multimediale, e che martedì 13 maggio a Imperia sarà lo spunto per la presentazione del libro Mass Effect – Interattività ludica e narrativa: videogame, advergame, gamification, social organization (Lupetti Editore) di Giuseppe Romano all’ID Fest.
Docente universitario di “lettura e creazione di testi interattivi” alla Cattolica di Milano e alla Accademia San Giulia di Brescia, il professor Romano, che è anche un giornalista che tiene e ha tenuto rubriche sui videogiochi su quotidiani, rotocalchi, siti, sarà ospite della rassegna primaverile del Dams per spiegare come un tipo di opera per molto tempo considerato alla stregua di un mero prodotto di mercato, osteggiato da gran parte dei media e dall’establishment culturale e formativo, sia diventato negli ultimi anni un punto di riferimento imprescindibile per chi lavora nel campo della comunicazione e non solo.
Il successo dei videogiochi
Professor Romano, per molto tempo (almeno per tutti gli anni 80 e 90) i videogame sono stati osteggiati dai media. Molti li hanno additati tra le principali cause del processo di decerebralizzazione in atto, oltre che come possibili fonti di malesseri fisici e psichici. Poi hanno acquisito una popolarità che li ha portati sotto i riflettori come fenomeno di costume che non aveva nulla da invidiare a cinema, fumetti, libri, musica. Talvolta, addirittura, sono stati citati come efficace strumento didattico, da utilizzare per avvicinare i più giovani alla cultura o formarli in certe particolari discipline. A che cosa è dovuto questo cambio radicale di atteggiamento? E come mai i videogame hanno faticato così tanto a fare breccia nel cuore dei media, quando già spopolavano come nuova forma di intrattenimento?
Molte ragioni contribuiscono a quella lunga sottovalutazione che per tanti anni ha riguardato il mondo dei videogiochi. E che non si è conclusa: l’attuale popolarità, spesso, è più legata alla constatazione della loro diffusione e del loro grande impatto economico, piuttosto che al riconoscimento di un valore intrinseco.
Da una parte credo che soprattutto in Italia scontiamo un pregiudizio “letterario” per cui qualsiasi forma d’intrattenimento culturale che non sia visto come alto viene relegata nel canone dei “generi”, come fosse di secondo piano. È successo lungamente con la fantascienza (Matrix ha segnato un salto epocale), col fantasy (Tolkien compreso), con i romanzi incentrati sullo straordinario, fosse meraviglioso oppure orribile (Stephen King, malgrado le copie vendute e i grandi film tratti dalle sue eccellenti trame, fatica tuttora a essere considerato un grande scrittore tout court). I videogame rientrano in questa “separazione”, considerati meri svaghi disimpegnati.
D’altra parte molti videogame hanno ricevuto un impulso meramente commerciale che non li ha agevolati nell’ottenere un riconoscimento adeguato come mezzi di espressione e di comunicazione. Le stesse case di produzione li hanno considerati e affermati come prodotti, piuttosto che come testi, cioè opere dotate anzitutto di uno statuto culturale. Ed è un peccato, perché si tratta appunto di testi dotati di un linguaggio innovativo e originale in quanto multimediale, interattivo, ludico e narrativo.
Come nasce la gamification
Quali sono le dinamiche, gli stili, le prerogative alla base del concetto di videogioco che possono essere maggiormente sfruttabili nei processi di gamification applicati al marketing e agli altri ambiti creativi e comunicativi?
Sono convinto che la convivenza, nel videogame, dell’elemento ludico e di quello narrativo contribuiscano a farne un’opera capace di toccare corde molto profonde nella nostra interiorità. Entrambi si riferiscono a quegli aspetti essenziali dell’uomo che riguardano l’esemplarità e il racconto, e dunque incoraggiano l’imitazione e l’immedesimazione. Sotto questo aspetto la gamification suscita prospettive molto interessanti perché abolisce quel distacco che è proprio della didattica basata sull’atteggiamento “frontale”, davanti al quale occorre soltanto apprendere passivamente, senza fare proprio ciò che s’impara.
Inoltre il marketing, correttamente inteso, è la comunicazione sincera del valore della marca e di ciò che si vende come qualcosa che può aiutarci. In questa visione non esistono meri “consumatori” da imbonire, bensì interlocutori con cui condividere. La gamification può essere una strada preziosa in questa direzione, così come lo è per trasformare tutti i processi di apprendimento in itinerari di interiorizzazione.
Quali sono i videogiochi più adatti per la gamification
Da tutti i videogiochi c’è da imparare qualcosa su come allestire e gestire campagne di promozione, strategie di comunicazione, percorsi creativi, o solo da alcuni? Quali sono in particolare quelli che hanno offerto più spunti e sono magari diventati canovacci ideali per i cosiddetti serious games, cioè i videogiochi realizzati per fini didattici e formativi?
Secondo me non esistono i serious games, se per tali si intendono giochi che fanno finta di intrattenere ma in effetti vogliono insegnare. Il gioco può aiutare l’apprendimento soltanto se si propone sinceramente come gioco, senza altre finalità. Sotto questo aspetto non vedo distinzioni preventive di generi o di temi. Se invece si intende che si può giocare su argomenti e temi “seri”, la cosa è ben diversa. Innumerevoli romanzi e film mostrano che questa è una strada eccellente per aiutarci a essere uomini migliori e per fare nostre le più grandi aspirazioni.
Già Platone e Aristotele, del resto, inserivano il concetto di virtù in una dimensione “giocosa”, narrativa e sociale. La sfida, in sostanza, per chi voglia realizzare videogiochi per fini didattici e formativi – o anche nell’ambito del marketing – è quella di non usare il gioco come un pretesto, bensì come il cuore stesso della sua proposta.
Il passaggio dalla postazione di gioco fissa a quella mobile
Come stanno cambiando le dinamiche e gli stili dei videogiochi con l’apparente spostamento del mercato dai tradizionali dispositivi fissi come pc e console a quelli prettamente mobili come smartphone e tablet?
È soprattutto una questione di linguaggio. Il touch screen ha colmato un abisso tecnologico che rendeva difficile interagire col computer. Adesso anche i “non specialisti” – per esempio persone anziane che non hanno mai usato il pc, o bambini molto piccoli – possono tranquillamente manipolare i contenuti interattivi. Contemporaneamente, molte app hanno capito che l’interazione deve essere rapida, breve e ripetuta. Soprattutto, il pubblico delle sim telefoniche, quelle che animano smartphone e tablet, si conta in miliardi di persone. È un orizzonte davvero sconfinato, che fa presagire, finalmente, opere davvero “popolari”.
Il rapporto con i social network
L’avvento dei social network ha favorito o contrastato (creando un regime di concorrenza) la diffusione dei videogiochi, in particolare in Italia?
Secondo me non c’è reale contrapposizione. Anzi, molti videogame stanno assumendo una consistenza “social” di cui non abbiamo ancora esaurito le potenzialità. Al tempo stesso, l’ebbrezza generica per la novità di social network tipo Facebook sta lasciando il posto a proposte più concrete e sostanziose. Proposte nelle quali c’è molto spazio per climi, atteggiamenti e condivisioni di gioco.
La differenza tra giocatori hardcore e casual
Nel libro viene operata una distinzione tra giocatori hardcore, cioè più interessati a un tipo di intrattenimento massiccio e totalizzante (e spesso fine a se stesso, come nel caso dei mmporg) e giocatori casual, che si accontentano di sfide meno impegnative e anche meno strutturate, talvolta legate a temi e situazioni meno tradizionali. Quale di questi due ambiti alla lunga potrebbe prevalere sull’altro e/o favorire una ulteriore evoluzione (se possibile) del videogioco?
Sotto il profilo commerciale i videogiochi ambiscono a un pubblico sempre più vasto. Questo però ha in un certo senso messo in crisi il settore. Con i budget faraonici dei videogame “triple A” basta arrivare secondi o terzi per non riprendere gli investimenti e finire in bancarotta. I giochi di quel genere infatti sono molto calati di numero, sebbene la qualità tecnica resti eccellente. Inoltre diminuiscono i giochi cervellotici, che richiedono lunghe e impegnative fasi di apprendimento che resterebbero riservate a poche persone.
Comunque, credo che resterà sempre una diversificazione di generi, che colmerà non soltanto il vasto pubblico ma anche le nicchie, più o meno consistenti, degli appassionati di genere. Lo conferma la nuova primavera dei giochi indie, le produzioni indipendenti che spesso, con poche risorse, raggiungono successi sorprendenti.
Lo sport della mente?
È d’accordo con chi dice che i videogame sono lo sport della mente o la trova una definizione un po’ superficiale?
La trovo una definizione troppo generica e probabilmente gradita a chi gioca poco. Ci sono videogiochi entusiasmanti sotto il profilo intellettuale. Altri invece sono gradevoli proprio perché coinvolgono senza impegnare altro che i riflessi, in una continua ripetizione di gesti semplici. Tutte le opere espressive e tutti i mezzi di comunicazione sono “sport per la mente”. Poi però bisogna entrare nel merito delle singole opere.
Lettere videoludiche
Che tipo di lettere riceve, di solito, un giornalista come lei che tiene e ha tenuto rubriche sui videogiochi sui più disparati mezzi di comunicazione, tra giornali, rotocalchi, quotidiani, siti? Il pubblico approva la sua volontà di scoprire e analizzare gli elementi culturali, formativi e, talvolta, folkloristici dei videogiochi? Oppure c’è anche qualche contestatore?
Il mio pubblico si divide in due grandi e diversi settori. Ci sono i giocatori, che certe volte rimangono piacevolmente stupiti per il fatto che qualcuno “spieghi” perché è bello e importante un gioco che amano istintivamente e in modo irriflessivo. E ci sono genitori ed educatori, che si dividono nelle due categorie degli entusiasti e degli spaventati. Categorie peraltro accomunate dalla mancata comprensione di che cosa davvero sia il linguaggio dei videogiochi.
Una piccola parte degli “spaventati” resta arroccata nel pregiudizio di contrastare i videogiochi come una realtà negativa, che fa perdere tempo e sostanzialmente distrae dalle “cose importanti” (quali?). Ma è una parte sempre minore.
Il mio scopo di critico è quello di aiutare giocatori ed educatori a riflettere sul perché questo intrattenimento sia così diffuso e appassionante: certo non lo si può sottovalutare, né considerare secondario. Soltanto così si arriva a giudicarne l’importanza, e soltanto dopo, per le singole opere, a decidere se siano più o meno “buone”. Esattamente come facciamo per i libri.
Il target del libro
A quale tipo di lettore si rivolge il libro?
L’ho scritto anzitutto per chi gioca. Volevo aiutarlo a riflettere sulla straordinaria profondità che si cela dietro l’immediatezza dei meccanismi di gioco. E, di conseguenza, sull’impatto importante che i videogiochi hanno per il singolo e per la società. In secondo luogo l’ho scritto per aiutare imprenditori, educatori e comunicatori a cogliere le grandi prospettive di questo linguaggio, se adottato in tanti contesti umani significativi.
I videogiochi preferiti del professor Romano
Lei gioca, professore? Nel caso, come si è avvicinato al mondo dei videogiochi e quali sono le opere di ieri e di oggi che ricorda con più affetto?
Ho cominciato a giocare quando avevo quindici anni, negli anni Settanta. Ho proseguito più intensamente negli anni Ottanta, quando un’intera nuova generazione di videogame ha mostrato che dietro le tecnologie c’era un linguaggio consapevole e coinvolgente. Già Arkanoid era una festa di sollecitazioni. Videogiochi narrativi come la serie di Monkey Island, prodotta da Gorge Lucas, mi rimangono molto cari anche per la qualità dei testi e delle musiche.
Ritengo, poi, che fin dagli esordi le simulazioni sportive siano state un esempio di quanto si può andare lontani con le dinamiche d’interazione collettiva in ambienti virtuali. E amo alcuni grandi “mondi” recenti in cui tutto è possibile con grande libertà, dal dopobomba di Fallout (fin dall’esordio, tanti anni fa) al fantasy di The Elder Scrolls. Oppure, per la straordinaria sceneggiatura, la saga fantascientifica Mass effect, da cui per riconoscenza ho preso in prestito il nome per il titolo del mio libro.
Marco Vallarino