Racconto di Marco Vallarino pubblicato sul numero 23 della rivista Il Foglio Letterario.
Il cielo sopra il porto ha il colore dell’ultima cosa che Pino vedrà prima di finire in fondo al mare con una pietra al collo.
«Non voglio morire!» grida il ragazzo, stretto tra due energumeni che fanno a gara a chi ha la grinta più feroce. Alle tre del mattino la banchina è sempre più vicina e in giro non c’è nessuno che possa impedire a Pino di dire addio a questo mondo crudele. Batman è in ferie, l’Uomo Ragno aveva un appuntamento galante e, per il nuovo miracolo italiano, pare che il Governo si stia ancora attrezzando.
Se gli energumeni glielo permettessero, proverebbe a inginocchiarsi e a strisciare per terra, invece può solo chiedere: «Pietà, Franco, pietà! Ti prego, non mi uccidere. Ti giuro che d’ora in avanti righerò dritto, farò tutto quello che vorrai. È stato solo un attimo di debolezza. Smetterò con la roba, vedrai e lavorerò anche gratis.»
«Minchia, Pino, quanto rompi!» sbotta Franco, qualche passo più avanti. Un ciccione abbottonato per scommessa (per vedere quale sarà il primo bottone a saltare), con un sigaro in bocca e una montagna di gel in testa, sparpagliato tra capelli sempre più bianchi e radi. «Finiscila di fare la donnicciola. Cerca di morire con dignità. È l’unico modo che hai per lasciare un buon ricordo dopo quello che hai combinato.»
«Ma io non voglio morire!»
Pino ha smesso di camminare, ma gli energumeni non hanno problemi a trascinarlo di peso verso la X disegnata sulla mappa della morte. Poco ci manca che le punte delle scarpe facciano le scintille, strisciando per terra. «Franco, ti prego, ti scongiuro, risparmiami. Franco, tu sei come un padre per me, come puoi uccidere tuo figlio?»
«Fermi!»
A pochi passi dalla banchina, gli energumeni si fermano.
«Tiratelo su» dice ancora il ciccione. Butta via il sigaro, si avvicina a Pino, cerca i suoi occhi.
Pino ha giocato il jolly. Franco perde la testa quando sente parlare di padri e figli. Andrea, suo figlio, è morto in una sparatoria tanti anni fa. Il bersaglio era Franco, ma Andrea gli aveva fatto scudo col suo corpo.
«Pino, figlio mio!» esclama il boss con gli occhi lucidi. Gli carezza una guancia, poi chiede: «Perché mi hai fatto questo, Pino? Io credevo in te. Potevi crescere bene, potevamo fare grandi cose insieme, io e te.»
«Franco, padre mio! Risparmiami e vedrai che saprò farmi perdonare. Un giorno sarai orgoglioso di me. Sarai orgoglioso… di tuo figlio!»
Silenzio. La stretta degli energumeni non accenna a diminuire, ma Franco tentenna. Pino pensa già a quale chiesa potrebbe essere aperta di notte, per accendere un cero alla Madonna.
«Facciamo così» dice il boss alla fine. «Domenica c’è Lazio-Inter, l’ultima partita del campionato. Se l’Inter vince, finalmente dopo tredici anni saremo di nuovo campioni d’Italia e tu verrai a fare festa con me e gli altri, e ti prometto che cercherò di dimenticarmi quello che hai combinato. Se l’Inter pareggia o perde e la Juve o la Roma ci sorpassano in classifica, mi spiace ma temo che non sarò dell’umore adatto per salvarti. Questo è tutto quello che posso offrirti, figlio mio. Mi spiace, ma il tuo perdono deve passare per una specie di amnistia. Se accetti, dovrai seguire la partita chiuso in casa con i miei uomini alla porta che, al termine dell’incontro, faranno il loro dovere. Hai capito?»
Perché il grande cuore nerazzurro di Franco torni a battere per lui, a Pino basta che Juve e Roma non vincano. Ma dopo undici minuti i bianconeri a Udine sono già avanti due a zero, con Trezeguet e Del Piero che fanno quello che vogliono nell’area di rigore dei friulani. Anche lo zero a zero di Lazio-Inter regge poco. Al dodicesimo Vieri porta in vantaggio i nerazzurri. Si festeggia un po’ dappertutto e Pino già sogna un futuro come delfino del boss. Ma la Lazio è un acquario di squali e Poborsky ci mette solo otto minuti per pareggiare. L’apnea di Pino finisce dopo quattro minuti: al ventiquattresimo Di Biagio porta l’Inter sul due a uno. I festeggiamenti riprendono e quando già Pino pensa di chiudere in tranquillità il primo tempo, ecco che il mefistofelico Poborsky ci rimette lo zampino. Due a due.
L’intervallo sembra non finire mai. Pino fa fuori mezzo pacchetto di West, trasformando la sua camera in una fumeria d’oppio in cui si fatica a distinguere la sagoma della radio posata sul comodino. La voce di Riccardo Cucchi però si sente benissimo: «Tre a due! tre a due! Diego Pablo Simeone ha battuto di testa il portiere Toldo portando la Lazio sul tre a due.»
I delfini sono una razza in estinzione, Pino dovrebbe saperlo. Segna anche la Roma, con Cassano. L’Inter è terza. Per andare in Champions League dovrà giocare il turno preliminare di agosto. «Minchia, Franco adesso sarà veramente incacchiato.»
Al ventottesimo, all’Olimpico, Simone Inzaghi mette a segno il quattro a due per la Lazio e festeggia. A casa sua, Pino spegne la radio, si fa il segno della croce e comincia a pregare. «Gesù, ti prego, fa’ che venga un terremoto, un’inondazione, un maremoto, un uragano, un G8.»
Al fischio finale gli uomini di Franco suoneranno il campanello e lui dovrà aprire. Altrimenti butteranno giù la porta. Ma Pino ha ancora una carta da giocare. L’unico modo per non beccarsi una pallottola in fronte.
Nascosto nel cassonetto della tapparella c’è un sacchetto nero contenente della polverina gialla. La roba che ha fregato al boss. Pino la tira giù e pensa che forse c’è un modo migliore di morire per uno scudetto.