Racconto scritto per Il Secolo XIX del 17 luglio 2002
Genova, 14 settembre 2002
Cara Leila,
sono quasi dieci giorni che non ti racconto più niente. Mi dispiace, ma l’ultima settimana è stata assai movimentata. Mia mamma mi ha messo il velo. Mi ha detto di portarlo anche a scuola e di esserne orgogliosa. Mi ha anche detto che se qualcuno mi dava fastidio dovevo dirlo ai miei fratelli. Ma non è successo niente. Poi è passata la legge contro noi immigrati “irregolari” (così ci chiamano) e sono subito scattati i controlli dappertutto per scovare e rispedire a casa chi non ha il permesso di soggiorno.
Per ottenere questo permesso pare che si debba avere un contratto di lavoro e non credo che sarebbe una cosa tanto difficile se non fosse che la gran parte di noi immigrati è costretta a lavorare senza. I padroni delle fabbriche e quelli che sono disposti a farci lavorare dicono che il contratto costa troppo: bisogna pagare anche le tasse e i contributi per la pensione, l’ospedale e molte altre cose che sono utili e giuste da pagare, ma anche molto care.
Mio padre, mia madre e i miei fratelli più grandi hanno sempre accettato di lavorare senza contratto e non si sono mai lamentati. A me che sono la più piccolina e seguo ancora poco le cose da grandi, dicono che siamo fortunati a vivere di lavoro in un paese dove quasi tutti quelli che scappano dai paesi più poveri finiscono a mendicare per la strada. Anche adesso dicono che va bene e che potrebbe andare molto peggio, ma è stato terribile dover lasciare la nostra bella casetta vicino al parco giochi. I vicini ci hanno salutati con le lacrime agli occhi. “Addio, principessa” mi hanno detto le signore dove andavo a fare merenda quando la mamma era a lavorare. Mi hanno regalato una bellissima spilla dorata e poi ci siamo strette forte forte.
Dalla scuola alla fabbrica
Anche i miei compagni di classe si sono dispiaciuti. Andrea mi ha dato un bacio sulla guancia e si vedeva che era molto triste. Il padrone della fabbrica è stato molto gentile e ha deciso di aiutarci, anche se questa nuova legge può farlo andare in prigione. Insieme a altri immigrati anche di altri paesi ci ha mandati in una grossa casa fuori città, dove potremo vivere e lavorare al sicuro dai controlli della polizia. Dormiamo e mangiamo tutti insieme in un’unica stanza e stiamo un po’ stretti, ma è l’unico modo per continuare a stare qui e lavorare. Adesso che non vado più a scuola devo dare una mano anch’io: cucire mi piace anche se i palloni sono molto più duri dei calzini che rammendo insieme alla mamma.
L’unica cosa che non mi piace sono gli uomini che ci sorvegliano e che ci trattano male quando ci mettiamo a chiacchierare o lavoriamo meno del solito. La mamma dice che è normale e che succedeva anche in fabbrica, ma io li trovo molto antipatici. Mi ha detto anche che se per caso la polizia dovesse venire a fare dei controlli qui, loro saprebbero come fare per nascondere tutto e non farci trovare, ma io spero che non succeda mai.
La cantina è buia e puzzolente e mi fa paura. Non ci starei neanche cinque minuti, figuriamoci un giorno intero. Beh, anche oggi credo di averti raccontato tutto. Mi mancano le mie amiche e le mie compagne di scuola, chissà quando le rivedrò, ma almeno ho te: ti voglio bene, cara Leila, sei la mia migliore amica e stai sicura che nessuna legge potrà mai separarci.
La tua Amina
Genova, 18 settembre 2002
Cara Leila,
era troppo bello per essere vero! Ti scrivo queste poche righe dal fondo della cantina buia e puzzolente, dove siamo tutti stretti e ammassati. Dicono che ci stanno cercando con i cani, ma forse è per fare paura a noi piccoli. Adesso devo spegnere la candela, perché si consuma e non ne rimane più per l’ora di pranzo.
Ciao, Amina.
Genova, 20 settembre 2002
Cara Leila,
è già finita. Sono al centro di accoglienza e tra poco partiremo per tornare al nostro paese, in mezzo a quella miseria che ci eravamo quasi dimenticati. La polizia ci ha trovati dopo due giorni in cantina, anche se uscivamo solo per fare pipì. È venuta a colpo sicuro e le bugie degli uomini della fabbrica non sono servite a niente. Mio padre dice che sono stati i senegalesi a farci la spia per prendere il nostro posto, ma a me non importa. Non so se questa legge che dice che dobbiamo andare via sia giusta, ma tornare sarà difficilissimo e rischioso. Abbiamo perso la nostra grande occasione.
La tua Amina
Genova, 14 ottobre 2002
Cara Leila,
spero che il Marocco ti piaccia. Io non me lo ricordavo tanto, ero proprio piccola quando siamo partiti per l’Italia. So bene che è un paese molto povero, ma io lo trovo splendido. C’è il sole e mi sento a casa mia. Subito non credevo che sarei riuscita a chiedere l’elemosina ai turisti, ma quando ho fame quasi non ci faccio caso. Mio padre e i miei fratelli si arrangiano e qualche soldo riescono a rimediarlo.
Adesso però c’è una grande novità. Il padrone della fabbrica per cui lavoravamo in Italia è venuto a cercare mio padre. Vuole aprire una fabbrica in Marocco perché dalle nostre parti il lavoro costa meno. Certo, perché ne valga la pena bisognerà che tutti lavorino sodo e si accontentino di poco, ma quando ho visto papà ringraziare il padrone con gli occhi pieni di lacrime, ho capito che è arrivata la nostra seconda grande occasione. E speriamo proprio, cara Leila, che da domani ci siano solo buone notizie.
La tua Amina
Marco Vallarino
Il racconto Il diario di Amina ben Said fa parte del reading teatrale Movimenti invisibili. È uno spettacolo in tre atti che ho composto con altrettante mie storie dedicate alle avventure e disavventure dei cittadini extracomunitari in Italia. Gli altri racconti proposti dal reading, insieme alle canzoni di Eugenio Ripepi, sono:
La prima dello spettacolo si è tenuta nel 2005 al centro sociale Buridda di Genova.