Racconto umoristico scritto per l’antologia “La minestra sul cortile” (Coniglio, 2006)
Guarda il cortometraggio di Emilio Audissino tratto dalla storia.
Era la cosa più bella che avessi mai visto. Cioè, la persona. La ragazza più esattamente. Si chiamava Eleonora e aveva un viso d’angelo incorniciato da scintillanti riccioli neri, simili a scale a chiocciola destinate a salire in paradiso.
“Ce l’hai il porto d’armi per i capelli?” le chiesi.
“Perché?” rispose stupita.
“Sono un’arma che colpisce dritta al cuore” spiegai.
Non rise, ma nemmeno se ne andò, lasciandomi il tempo di dire che le sue curve erano quelle mozzafiato di un circuito di formula uno su cui bisognava vincere a tutti i costi, per poter chiedere la sua mano prima degli altri, festeggiando poi con lo champagne del podio.
“Voi ragazzi siete tutti uguali” sbottò. “Pensate solo a quello!”
Fece per andarsene, fu solo grazie alla mia prontezza di spirito che rimediai: “Beh, ma la curva migliore rimane quella del tuo sorriso.”
Finalmente sorrise. Avevo ragione. I denti bianchissimi erano le lapidi del cimitero in cui erano sepolte la tristezza, la noia, la malinconia, la paura, tra labbra rosse come il fuoco che allontana il gelo della solitudine.
Azzardai un invito a cena.
Incredibilmente accettò.
“Passo a prenderti domani sera alle otto” siglai prima di lasciarla andare, correndo a esultare in piazza, in mezzo ai tifosi del Liverpool. You’ll never walk alone. Soprattutto se vai a braccetto con Eleonora.
Passai il pomeriggio del giorno successivo a pompare i muscoli in palestra. Feci anche una corsetta sul lungomare, per asciugarmi un po’ e rimediare una parvenza di abbronzatura. A casa, sotto la doccia, mi insaponai ben bene col bagnoschiuma afrodisiaco fregato in un sexy shop a Nizza. Mi feci la barba, tagliando anche il pizzo e le basette portafortuna per sembrare più rassicurante, poi rovistai nell’armadio alla ricerca di un vestito che fosse abbastanza da principe azzurro. Gli occhi c’erano tutti, il resto un po’ meno.
Mi ritrovai azzimato ma fiducioso ad attendere Eleonora sotto casa, al volante di una Micra bianca tirata a lucido. Lei arrivò con un ritardo quasi trascurabile e un vestitino nero che ricordava l’inno alla gioia di Beethoven.
“Ciao” mormorò, poi sorrise e mi baciò. Sulla guancia. Aprii la portiera e la feci accomodare in macchina. Tornai al volante, misi in moto e partii come Giulio Cesare diretto in Gallia.
Il ristorante in cui avevo prenotato era in una stradina di periferia, stretta e silenziosa, più intima che desolata. Le ampie vetrate erano illuminate dalla luce tremula delle candele e dei ceri sistemati sui tavoli. Lucio, il proprietario, vecchio amico che era stato informato dell’importanza dell’incontro, ci accolse con un sorriso d’intesa. Il locale aveva un aspetto decisamente esotico, arredato con oggetti provenienti da tutto il mondo, raccolti da Lucio nel corso dei suoi tanti viaggi. Lanterne, quadri, statuette, bambole, specchi, bassorilievi, ma anche spade, scudi, lance.
Il nostro tavolo era accanto alla vetrata che dava sulla strada. Al di là della mia macchina parcheggiata, la luna piena brillava sul mare. Per la scelta dei piatti e del vino mi affidai a Lucio, io dovevo pensare a cosa dire a Eleonora.
Cercai il suo sguardo e attaccai: “Sei così bella che non riesco a smettere di guardarti.”
Ridacchiò, prima di sentenziare: “Tu mi prendi in giro. Chissà a quante altre ragazze l’hai detto prima di me.”
Feci per replicare, ma fui anticipato dall’arrivo del primo antipasto.
“Polpo saltato con verdure miste di stagione” annunciò Lucio posando i piatti.
Delizioso, pensai dopo averlo assaggiato. E prima di tornare all’attacco: “Quello che posso aver detto alle altre ragazze non conta più nulla. Solo tu sei eccezionalmente, leggendariamente, esageratamente, oceanicamente, naturalmente, orgasmicamente, radicalmente, assolutamente bella. Altrimenti perché ti chiameresti Eleonora?”
Nascose il sorriso dietro un sorso di bianco, poi commentò: “Sei bravo con le parole. Ma con i fatti come te la cavi?”
“Che vuoi dire?”
“Beh, che cosa saresti disposto a fare veramente per me, oltre a raccontarmi tutte queste storielle?”
“Che domanda retorica, sai bene che farei qualunque cosa per te. Una volta si diceva che solo pochi sguardi nobili vedran l’aurora. A me però interessa far felice Eleonora. Chiedimi pure quello che vuoi.”
Finì l’antipasto, posò la forchetta e annunciò: “Per il momento basta solo che mi prometti di non scappare via di qua nella prossima mezz’ora.”
“Eh?”
“Hai capito benissimo. Allora, me lo prometti o no?”
“Certo che te lo prometto” risposi, mentre Lucio tornava a ritirare i piatti vuoti. “Non lascerei questo tavolo per niente al mondo. È anche grazie a questo pezzo di legno che entrerò nel Guinness dei Primati.”
Stavolta fu lei a stupirsi. “E come?”
“Beh, da domani potrò dire di essere stato a cena con la ragazza più bella del mondo.”
“Continua pure a fare lo spiritoso, vediamo cosa dirai tra poco.”
“Si può sapere cosa diavolo succederà tra poco?”
“Tra poco non lo so, intanto arriva l’insalata di zucchine con gamberi e mentuccia” intervenne Lucio col secondo antipasto.
“Mangia piano” suggerì Eleonora.
“Perché?” chiesi sospettoso.
“Meglio che non te lo dica.”
La prima zucchina mi andò di traverso. Tossii fino a mandarla giù e ripresi: “Insomma, mi vuoi dire che cos’hai in mente? Hai accettato di venire a cena con me dopo cinque minuti che ci conoscevamo. Mi sembra un buon segno, no? E io ti ho portato in uno dei ristoranti più carini della città, giusto? E allora che cosa c’è che non va?”
“Quello che non va è che sono single da più di sei mesi e certo non per mia scelta.”
“Beh, ma stasera rimediamo, no?”
“Vedremo.”
Finimmo anche l’insalata di zucchine e Lucio portò via i piatti apparecchiando il tavolo per il primo. Ma la voglia di intortare Eleonora mi era quasi del tutto passata. Adesso, l’incantevole ragazza dagli occhi dolcissimi, il nasino all’insù e le curve spettacolari, più che intrigante mi appariva minacciosa.
Pensando alle cose più terribili che sarebbero potute accadere nella fatidica mezz’ora, vidi Eleonora trasformarsi in un mostro terrificante, una racchia strabica tutta ciccia e brufoli. Magari portava sfiga e, in tutti i posti in cui andava a mangiare, si verificavano eventi disastrosi, tipo un terremoto, un maremoto, un uragano o un G8. Oppure era pazza e, in capo a mezz’ora, avrebbe tentato di cavarmi un occhio con la forchetta.
“Sei preoccupato, eh?” mi apostrofò dall’altro capo del tavolo, che adesso mi appariva lontano come l’Australia.
“Beh, forse lo sarei di meno se provassi a spiegarmi che cosa sta per accadere.”
“Oh, no! se ti dicessi qualcosa, saresti molto più preoccupato!”
“Lo sospettavo.”
In giro, guardavo quasi con invidia le altre coppie che, tra un piatto e l’altro, ridevano, scherzavano e si facevano le moine più disperate. Se fossi stato a cena con Cassandra, mi sarei sentito più tranquillo. In quanto a bellezza le altre ragazze stavano a Eleonora come il tris sta agli scacchi, ma almeno loro facevano discorsi normali.
La mezz’ora era quasi trascorsa quando Lucio portò in tavola due piatti fumanti di spaghetti alla bottarga.
“La specialità della casa!” esclamò raggiante prima di tornare in cucina.
“Buon appetito” mormorai cacciando la forchetta nel piatto.
“Cinque” rispose Eleonora, immobile.
“Come?”
“Quattro. Tre. Due. Uno. Zero.”
Quando una cenetta romantica si trasforma nel peggiore degli incubi
Slam! La porta del ristorante si spalancò di colpo e sulla soglia comparve un energumeno dall’espressione feroce come una tigre dai denti a sciabola. Avanzò nel locale stretto in una giacca blu che non sarebbe andata bene neanche al suo naso. I jeans sporchi e stracciati e i Camperos che indossava avrebbero messo in imbarazzo chiunque in un posto del genere, tranne uno come lui.
Raggiunse il nostro tavolo e attaccò: “Ciao, amore!” poi si girò verso di me e annunciò: “Hai tre secondi per lasciarmi la tua carta di credito e sparire.”
“Ehi, ma che diavolo significa?” sbottai verso Eleonora. Mai e poi mai mi sarei sognato di rivolgermi in quel modo a uno così grande e grosso, che poteva essere tutto meno che il gigante buono di Oscar Wilde.
“Significa quello che significa” raddoppiò il bestione. “Forse non lo sai perché Eleonora è un po’ smemorata e si è dimenticata di dirtelo, ma io sono il suo fidanzato. E tu ci stai provando con la mia ragazza, non so se hai presente la gravità del fatto. Ma se mi lasci la tua carta di credito per pagare il conto e giuri di sparire per sempre, farò finta di non averti visto. E guarda che sono già passati due secondi.”
Mi alzai, ma non me ne andai. Avevo una promessa da mantenere, mio malgrado. Tra lui e me passava la stessa differenza che c’era tra un grattacielo di New York e la casa della bambole. La mia testa non arrivava alle sue spalle e, anche al di là della stazza da overdose di raggi gamma, gli occhi iniettati di sangue erano rassicuranti come un pesce padulo.
Cercando di non pensarci, e rischiando di farmi venire il torcicollo, lo guardai dritto negli occhi e dissi: “Oh, bestione, vedo che sono stati proprio bravi con te allo zoo. Ti hanno insegnato anche a parlare! Peccato però che tu dica solo stronzate. Anzi, non credi sia giunta l’ora di tornare nella gabbia? Eleonora è con me stasera e, comunque stiano le cose, ho tutta l’intenzione di godermi questa cena insieme a lei, caffè e grappino compresi!”
Il colosso non batté ciglio. Si limitò a appoggiarmi una manona sulla spalla, annunciando con un sorrisetto: “Benissimo, fai come vuoi. Io ti aspetto fuori con i miei amici. Intanto mi prenderò cura della tua macchina.”
“È stato molto bello quello che hai fatto, grazie” commentò Eleonora dopo che il pachiderma se ne fu andato. Allungò una mano sul tavolo a stringere la mia. Sorrise. E incominciò a mangiare gli spaghetti come se nulla fosse.
“Temo invece che sarà molto brutto quello che farà lui” commentai a mia volta. “Ma chi diavolo è?”
“Uno che ho conosciuto in palestra l’anno scorso. Si chiama Rocco, me l’aveva presentato la mia amica Aurora dicendomi che le sembrava un pacioccone, l’ideale per una brava ragazza come me. Ma io non ci ho messo molto a capire che era dolce come un tirannosaurus rex. La prima e unica sera che siamo usciti insieme mi ha portato a visitare un cimitero d’auto, pretendendo di fare sesso tra i rottami perché quello scenario di morte e distruzione lo eccitava. Ho fatto di tutto per togliermelo dai piedi, ma invano. Lui mi sta sempre dietro, mi segue dappertutto e, ogni volta che esco un ragazzo, trova il modo di farlo scappare a gambe levate.”
“Ma come sapevi che sarebbe arrivato entro mezz’ora?”
“Beh, secondo il suo ragionamento gli altri ragazzi possono anche andare bene come antipasto, ma il primo piatto deve essere per forza lui.”
“Ma non si è mai ribellato nessuno?”
“Sì, certo. Tommaso, che era cintura nera di karate. E Diego, che era grosso quasi quanto lui.”
“E com’è andata a finire?”
Tra un ricciolo e l’altro, Eleonora fece una smorfia. “Mah, sono tutti e due ancora in coma.”
Trasalii. Mi sentivo come un negro capitato per sbaglio a una riunione del Ku Kux Klan.
“Ma non mangi?” mi incalzò Eleonora con il piatto quasi vuoto.
L’appetito mi era passato completamente. Gli spaghetti alla bottarga mi piacevano da matti, ma in quel momento mi apparivano, tutti annodati insieme, come il cappio con cui Rocco mi avrebbe impiccato al palo della luce davanti al ristorante, dopo avermi suonato come un tamburo della banda dei musicanti di Brema.
Un fragoroso rumore di vetri infranti proveniente da fuori mi fece voltare verso la finestra. Era il parabrezza della mia macchina, che Rocco aveva appena disintegrato con una mazza da baseball, prima di passare ai finestrini laterali e al resto.
“Io chiamo la polizia” annunciai prendendo il cellulare.
“Sarebbe inutile” replicò sconsolata Eleonora.
“E perché?”
“Suo zio è commissario.”
“I carabinieri.”
“Suo cugino è maresciallo.”
“La guardia di finanza.”
“Suo fratello è capitano.”
“La forestale.”
“Non verrebbe mai. Siamo in città.”
“Ah, già.”
Mi guardai intorno. I ragazzi seduti in dolce compagnia agli altri tavoli erano delle mezze seghe, buoni solo a limonare e comprare in farmacia scatole di Viagra. Rocco li avrebbe tagliati a strisce per poi usarli come carta igienica.
Attraverso la vetrata, potevo osservare il triste spettacolo della mia macchina distrutta dalla furia omicida di Rocco e dei suoi amichetti. Peraltro erano uno più terrificante dell’altro, tra giacche e pantaloni di pelle, camicie nere, divise militari e una maglietta su cui scorgevo la scritta: Here comes the pain! Nessuno che conoscessi e con cui potessi trattare la mia salvezza, a parte Pino il calato, con cui però avevo litigato furiosamente per un parcheggio conteso, pochi giorni prima. Bravo, bella mossa.
Mentre rimpiangevo di essermi tagliato le basette portafortuna, Lucio arrivò a recuperare i piatti del primo.
“Non andavano bene?” chiese vedendo che non avevo neanche toccato gli spaghetti.
“Non c’è un’uscita sul retro?” replicai in apnea.
“In cucina c’è una porta che dà su un vicolo.”
“E dove porta questo vicolo?”
“Alla strada naturalmente!”
Magnifico!
“Il secondo lo vuoi ancora?”
“Cosa sarebbe?”
“Granchio al vapore.”
Uno dei miei piatti preferiti. Rifiutai a malincuore. Eleonora invece si spazzolò tutto senza problemi.
“Come fai a mangiare in un momento come questo? Non sei preoccupata.”
“Assolutamente no. Finalmente ho trovato qualcuno che si prenderà cura di me.” Sorrise.
“Nel senso che se mi ammazza, potrò andare in paradiso e diventare il tuo angelo custode?”
“Ehi, dov’è finita la tua baldanza di scrittore e giornalista in carriera? Prima sembrava che con le parole potessi fare tutto, e adesso? Fatti venire un’idea, no? vedrai che dopo tutto andrà meglio.”
Sorrise di nuovo e mi fece l’occhiolino, lasciandomi intendere che se fossi riuscito a bere l’amaro calice di Rocco senza strozzarmi, poi avrei avuto diritto a festeggiare con la dolce Eleonora. Sempre che, con la fortuna che avevo, nel frattempo non diventassi diabetico.
“Scusa, vado in bagno” annunciai alzandomi.
“Guarda che ci sono le sbarre alla finestra” mi comunicò Lucio durante il tragitto.
Entrai e mi chiusi a chiave. Le sbarre c’erano veramente. Per impedire ai clienti di andarsene senza pagare il conto, Lucio aveva blindato il bagno come Fort Knox.
“Ave o Maria piena di grazia… Padre nostro che sei nei cieli… Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, com’era nel principio…”
“Tutto bene?”
Fuori dal bagno, dopo mezz’ora che mi ero chiuso dentro, Eleonora chiedeva mie notizie.
Aprii e risposi: “Speriamo… che vada tutto bene!”
Tornammo al tavolo in tempo per il caffè, dopo che Eleonora si era sbafata anche il dolce. Rifiutai, ero già abbastanza nervoso. Nel parcheggio davanti al ristorante, della mia splendida Micra non rimaneva che un cumulo di rottami.
“Ma stavi pregando in bagno?”
“Più o meno.”
“E adesso che cosa intendi fare?” m’incalzò Eleonora.
“Aspettare.”
“Guarda che il ristorante tra un’ora chiude!” intervenne Lucio sparecchiando il tavolo vicino al nostro.
“Lo sai, Lucio, che se mi ammazzano là fuori, tutti penseranno che il tuo sia un locale malfamato e nessuno di questi fighetti infingardi verrà più a mangiare qui.”
“Non se porto la macchina in campagna e lascio il tuo cadavere all’altro capo della città, davanti al ristorante di qualcun altro.”
Un’altra mezz’ora passò, forse una delle ultime della mia vita. Lucio provò a convincermi a fare testamento lasciandogli la mia collezione di Playboy. Io provai a convincere Eleonora a esaudire l’ultimo desiderio di un condannato a morte. Eleonora provò a convincermi che forse sarei solo finito in coma per qualche mese, come gli altri due.
Stavo per replicare quando, in strada, un rombo assordante e una luce accecante sconvolsero la tranquillità della notte. Una, due, tre, quattro, cinque, sei gigantesche Mercedes nere arrivarono a tutta velocità fermandosi davanti al ristorante. Uno spilungone biondo con un vestito scuro e un ciuffo che sembrava uno scherzo di Carnevale, scese dalla prima macchina e, impugnato un megafono, strillò: “Fuori i killer!”
Una ventina di energumeni in giacca e cravatta, armati fino ai denti, uscì dalle altre auto e affiancò lo spilungone che, rivolto alla cricca di Rocco, proseguì: “Luridi bastardi, chi di voi ha osato minacciare mio cugino? Adesso la pagherete!”
I killer puntarono pistole, fucili, mitragliette, lanciafiamme, bazooka e quant’altro, dandomi lo spunto per scrivere il soggetto di un nuovo film di gangster: Rocco e i suoi brandelli. Chissà che cosa avrebbe detto Luchino Visconti.
“No, vi prego, non sparate” disse intanto il mastodontico Rocco buttandosi in ginocchio. “Non sapevamo che era della famiglia, è stato tutto un malinteso. Risparmiateci, vi prego, e non vi daremo più fastidio.”
Strisciò fino ai piedi del biondo, che aggiunse: “E la macchina che avete distrutto?”
“Gliela ricompriamo nuova, giuro! Anzi, facciamo subito una colletta.”
Dalla vetrata, osservai Rocco e i suoi sgherri consegnare allo spilungone quanto di meglio il racket in Riviera potesse offrire, tra pacchi di banconote, portafogli di coccodrillo, catenine, anelli e orologi d’oro, camicie, scarpe e pantaloni firmati e due biglietti aerei per Cancun. Rocco voleva addirittura tornare dentro a chiedermi scusa e dare la buona notte a Eleonora, ma il biondo gli fece capire che non era il caso. Ci mise un po’ ma alla fine se ne andò.
“Ma come diavolo hai fatto?” domandò Eleonora, gli occhi ancora sgranati.
“Ho seguito il tuo consiglio” risposi. “È proprio vero che con le parole si riesce a fare di tutto. In bagno ho pregato tanto, ma ho anche fatto qualche telefonata. Tre per la precisione. La prima a Diego, un vecchio amico che colleziona riproduzioni di armi. La seconda a Carletto, che lavora per un’agenzia di guardie del corpo. La terza a Sandro, lo spilungone biondo che vedi là fuori e che ha una concessionaria di Mercedes poco lontano da qui. Semplice, no?”
“Abbastanza.”
“L’importante è avere dei buoni amici!” esclamarono Sandro, Diego e Carletto raggiungendoci al tavolo con la colletta di Rocco. “Altro che macchina! Con tutta ’sta roba ti ci esce una villa con piscina.”
“Va bene, visto che sono di buon umore vi lascio il dieci per cento” replicai intascando il resto.
“Mmm, molto umano” commentarono. “Non puoi lasciarci almeno il dodici così dividiamo in parti uguali?”
“Adesso non esagerate, per favore. Se volete mi piglio anche questo orologio, così vi lascio il nove. La cena mi auguro che sia offerta, dopo quello che ho passato.”
“E sia!” siglò Lucio. “In fondo mi hai fatto divertire.”
“E già che ci sei chiamami un taxi!”
Ringraziammo e salutammo tutti rimanendo finalmente soli.
“Vieni, Eleonora” dissi aprendole la porta. “Andiamo a festeggiare. Conosco un posticino…”
“No, scusa, sono stanca. E poi tutta quella confusione mi ha fatto venire il mal di testa. Ti spiace portarmi a casa?”
Mi spiaceva, sì e parecchio. Ma cosa potevo farci? Sotto casa sua a malapena rimediai un casto bacio della buona notte, prima che, in fondo all’androne, l’ascensore la riportasse nel suo empireo. Nei giorni successivi la tempestai di telefonate, con inviti a pranzo, a cena, a colazione, a merenda, ma c’era sempre qualcosa – un impegno, un malore – a impedirle di vedermi.
Smisi di chiamarla e la vidi sempre meno in giro, finché un giorno non ricevetti una lettera.
Un invito a un matrimonio.
Di Sandro e Eleonora.
Tutta colpa della messinscena al ristorante, che doveva avere impressionato la fanciulla più del previsto.
Fu così che decisi di andare a cercare Rocco per dirgli due o tre cose che sapevo di Sandro. Ma questa è un’altra storia.
Marco Vallarino