Racconto fantanoir pubblicato nella antologia “Invito alla festa con delitto” (L’Unità, 2004)
Pallido come lo zar ai tempi della Rivoluzione, Danilo non va al mare da cinque anni, ma non si perde un’edizione della Festa dell’Unità. Era ora che tornassero a organizzarne una a Imperia, a pochi passi da casa, al parcheggione della spianata Borgo Peri. Uno dei pochi che non abbia ancora le strisce azzurre, tra il molo lungo del porto commerciale, con il faro verde tappezzato di graffiti, e le spiagge irte di pietre e scogli aguzzi. Ma come dimenticare il concerto degli U2 all’aeroporto di Reggio Emilia nel 1997 e la sbronza colossale presa alla Fiera del Mare di Genova nel 1995, dopo essere stato riformato alla visita militare?
La bandiera rossa sventola gagliarda, sotto il tiepido sole di metà settembre. Ma è solo quella della spiaggia, issata per segnalare il divieto di balneazione. Il mare è molto agitato oggi e il bagnino ha già salvato abbastanza gente per quest’estate. Adesso è tempo di smontare gli ombrelloni e riporli in magazzino, insieme alle centinaia di sdraio e lettini su cui una umanità varia e avariata si è arrostita per tre mesi buoni.
Danilo si aggira tra le bancarelle e i padiglioni con sguardo sognante. In giro però non c’è anima viva. Nessuno che frughi tra i libri in offerta, alla ricerca del Capitale di Marx, del Libretto rosso di Mao o dei gialli di Massimo Carlotto. Nessuno che rovisti nei mucchi di videocassette che il giornale ha fatto uscire in edicola negli ultimi anni, da Lampi sul Messico di Ejzenstejn a L’uomo di marmo di Wajda, passando per L’infanzia di Ivan di Tarkovskij. Nessuno che tiri fuori cinque euro per acquistare una bandiera rossa gigante, con una bella stella gialla in cima a falce e martello. Nessuno che compri un biglietto per il concerto degli Altera, paladini genovesi del rock testimoniale, che si terrà sabato. Nessuno, e questo è ancora più strano, che sgranocchi pop corn o beva aranciata vicino al chiosco degli snack. Soltanto due bambini si aggirano smarriti tra le bancarelle, senza sapere cosa fare.
«Ciao» li saluta Danilo avvicinandosi. «Voi lo sapete dove sono finiti tutti? Se me lo dite, vi offro un bel gelato.»
«Sono laggiù» risponde il bambino più grande, indicando un grande padiglione in fondo allo spiazzo, sorvegliato da due energumeni in jeans e maglietta. «Fanno un gioco con le carte, ma a noi non ci fanno entrare perché siamo troppo piccoli.»
«Sarà la solita sala da gioco» pensa Danilo pagando i gelati, due coni giganti cioccolato, panna e cacao.
«Non credevo fossimo così infoiati con le carte, a Imperia» commenta avviandosi verso il padiglione. È quasi arrivato quando la porta si apre e esce qualcuno. Un ragazzo con una zazzera bionda, in bermuda e canottiera, a bordo di un paio di infradito nere. In lacrime, la faccia stravolta, il corpo scosso da singhiozzi violenti.
«La mia vita è finita!» strilla avanzando per la strada. «Domani morirò. Domani, se non oggi! Tra poco. Non riuscirò neanche a arrivare a casa, dopo quello che mi hanno fatto. Come ho potuto essere così stupido?»
«Su con la vita, amico!» interviene Danilo prendendolo da parte. Gli sembra di conoscerlo, è uno che frequenta il Dams, vuole fare il regista e ogni tanto viene a bere all’Arci. «Quanto mai potrai aver perso, in un padiglione della Festa dell’Unità?»
«Tutto! ho perso tutto! ho cominciato a giocare pensando che fosse uno scherzo, quasi buttando via le fiche. Poi ho sentito cosa mi stavano facendo e allora ho avuto paura e ho cercato di recuperare. Ma è andata sempre peggio e alla fine non mi è rimasto più niente. Non mi è rimasto neanche domani.»
«Domani? Cosa diavolo vuol dire che non ti è rimasto neanche domani?»
«Lasciami stare!» grida il biondo divincolandosi. «Mi hai già fatto perdere abbastanza tempo. E poi, non capirai mai se non vai là dentro a vedere. Ma stai attento, o finirai come me.»
Un brivido corre lungo la schiena di Danilo mentre osserva il ragazzo allontanarsi. Adesso il padiglione gli appare minaccioso come il lager di Auschwitz. La curiosità di vedere a che cosa stiano giocando però rimane.
I migliori anni della tua vita, c’è scritto sulla porta della costruzione, parodiando il titolo dello struggente film di Wyler e di una vecchia canzone di Renato Zero.
«Strana definizione per una sala da gioco» pensa Danilo, prima di chiedere agli energumeni: «Posso entrare?»
«Prego» risponde il più massiccio facendosi da parte e aprendo la porta.
Sono tre le cose che Danilo vede entrando.
La prima è un grande cartello appeso in fondo alla sala, che riporta una frase di William Burroughs che Danilo ha già letto da qualche parte: Nulla è vero. Tutto è permesso.
La seconda è la quantità di gente seduta al tavolo da gioco o in piedi in attesa del proprio turno. Almeno una quarantina di persone affolla il padiglione. Quasi tutti uomini, molti vecchi, ma anche qualche giovane. Come il biondo uscito prima (in lacrime).
La terza è il bizzarro macchinario piazzato dietro al banco, cui è appeso il cartello. Un gigantesco cilindro di metallo, alto quasi fino al soffitto, pieno di tubi e cavi attaccati un po’ dappertutto, tra una moltitudine di indicatori e luci accese o lampeggianti di vari colori: gialle, rosse, verdi, blu. Da un lato dell’apparecchio sporge un’ampia consolle, dotata di monitor, tastiera e una serie di altri pulsanti, su cui smanetta un tipetto occhialuto e mingherlino, avvolto in un camice bianco che ricorda tanto i primi programmatori degli anni Settanta. Ma quello che colpisce di più Danilo sono i grandi caschi scintillanti che indossano i giocatori, collegati al macchinario per mezzo di alcuni spessi cavi neri.
«Ma che diavolo…» mormora avanzando nel locale.
«Fa impressione, eh?» interviene un signore poco lontano, con un folto pizzo triangolare che potrebbe essere quello di Lenin. «Qualcosa mi dice che è la prima volta che viene qua dentro.»
«È così» conferma Danilo con un filo di voce. «Ma non si giocava a carte qua dentro? che cavolo c’entra quell’affare laggiù?»
«C’entra, c’entra» replica asciutto Lenin. «Senza di quello nessuno giocherebbe, mi creda.»
Le luci sul cilindro continuano a accendersi, spegnersi e lampeggiare mentre il gioco prosegue. Alla fine di ogni mano, qualcuno esulta, qualcun altro si dispera, come sempre.
«Ma che gioco è?» chiede ancora Danilo.
«Blackjack.»
«E il macchinario a che cosa serve?»
«Beh, nel caso migliore a pagare le puntate. Nel caso peggiore… brr! meglio non pensarci.»
«Quindi non giocano a soldi.»
«Certo che no! mica siamo a Las Vegas. La posta in gioco è qualcosa di molto più importante di tutti i suoi risparmi messi insieme.»
«E cioè?»
«È proprio sicuro di volerlo sapere? Può ancora uscire di qui e fare finta di niente. Forse le conviene.»
«Per favore, me lo dica.»
«Come vuole, compagno. Quello che ci giochiamo qui, ogni giorno dall’alba al tramonto, finché non smonteranno tutto, sono gli anni che ci restano da vivere.»
«Sta scherzando, vero?»
«È quello che pensano tutti, all’inizio. Ma io ormai, dopo venti giorni che gioco, sono quasi sicuro che non sia uno scherzo. Ho sentito quell’affare darmi gli anni che avevo puntato quando vincevo e togliermeli quando perdevo. Non è stata una bella sensazione, mi creda. Né in un caso, né nell’altro. L’unico motivo per cui sono ancora qui è che voglio riprendermi gli otto anni che ho perso.»
Danilo si sente come se gli stessero dicendo che la terra è piatta davanti a un mappamondo. «Quello che dice non ha senso» replica scocciato. «È impossibile che esista un apparecchio del genere. Io sono laureato in ingegneria elettronica. Ne ho visti di aggeggi strani, ma una cosa così è al di sopra dei nostri mezzi.»
«Ragazzo, ma lei c’è o ci fa?» sbotta Lenin che comincia a perdere la pazienza. «Le dico che l’ho provato e che ho davvero sentito la vita entrare o uscire dal mio corpo, attraverso quel casco. E poi, mi meraviglio di lei, compagno! come può aver dimenticato tutti gli studi condotti nell’ex Unione Sovietica sui modi di prolungare la vita il più possibile. Ma forse è troppo giovane per ricordarseli. Comunque pare che quell’affare venga da una clinica di Yalta, in Ucraina, dov’era a disposizione dei pezzi grossi della nomenklatura. Che naturalmente non avevano bisogno di vincere al blackjack per farsi sparare in testa dieci o quindici anni in più. C’era sempre qualche valoroso compagno pronto a dare la vita per il partito. Come sia finito in Italia è un mistero, ma è probabile che qualcuno abbia approfittato della messa in liquidazione della clinica, dopo il golpe del novantuno, per impadronirsene, facendolo poi girare alla Festa dell’Unità per incamerare un buon numero di anni da rivendere al miglior offerente. Immagino sia un business più redditizio rispetto all’acquisto di squadre di calcio.»
«E lei anche sapendo questo vuole giocare?»
Lenin si gratta la crapa pelata con una fiche e risponde: «Beh, perché no? in fondo mica tutti siamo sfigati al gioco come Dostoevskij. In questi giorni ho visto gente vincere anche trent’anni in meno di dieci minuti e andarsene via con buone speranze di diventare centenaria. E poi, le ripeto, io devo riprendermi gli otto anni che ho perso.»
«Ma come viene stabilito l’ammontare di anni che si ha a disposizione?»
«Dietro quella tenda laggiù c’è una cabina di vetro con una bilancia che pesa la nostra vita, effettuando una previsione molto ottimistica su quanto ci rimanga da vivere.»
«Un altro ricordo della clinica di Yalta?»
«Possibile. Ha mai sentito parlare dell’URSS?»
«Certo, l’Unione delle Repubbliche Socialiste…»
«No, non quella. Mi riferisco all’Unità delle Risorse per la Sopravvivenza Sistematica.»
«Ehm, no.»
«Beh, quello che vede qui fa tutto parte dell’URSS. Se fa una ricerca in rete troverà un sacco di materiale sull’argomento. Naturalmente c’è un tetto massimo all’aspettativa di vita raggiungibile giocando, mentre è possibile perdere tutti gli anni che si hanno a disposizione.»
«E in questo caso, che cosa succede?»
«Beh, poco fa un ragazzo ha perso tutto, ma è uscito di qui senza problemi. Ieri invece un tizio si è fatto venire un colpo e ci è rimasto secco.»
«Che cosa?! mi prende in giro?»
«No, purtroppo. È successo davvero, ma probabilmente è stata colpa della suggestione. È per quello che hanno messo il cartello. L’importante è non esagerare con le puntate e…»
«Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza!» gracchia una voce alle spalle dei due. «Nella vita e nell’asprezza il tuo canto squilla e va.»
Danilo si gira e riconosce Margherita, l’ottuagenaria e minuta signora che viene sempre a mangiare nel bar sotto casa. Vedova ricchissima di un certo «Maestro», vestita e truccata con la massima cura, oggi sfoggia due orecchini grandi come lampadari (simili a quelli montati sul cofano della limousine del Duca di New York) e si accompagna a un azzimato giovanotto dal fisico statuario, i capelli biondi e gli occhi azzurri.
«Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza!» continua a cantare, avanzando nel padiglione avvinghiata al braccio del giovane.
«Signora, guardi che il campo hobbit è dall’altra parte» interviene Danilo sbarrandole la strada verso il tavolo da gioco.
Margherita gli rifila un’occhiataccia. «Cosa me ne frega del campo hobbit!» esclama. «Io sono qui per giocare. Voglio fare l’amore col mio fidanzato fino a duecento anni! Avanti, datemi le fiche.»
«Dubito che le daranno qualcosa che non sia un calcio nel culo» pensa Danilo osservando la vecchia sparire dietro la tenda per entrare nella cabina. «Con tutto quello che fuma e beve, è un miracolo che sia ancora viva.»
«Zero?! come sarebbe a dire zero?» strilla Margherita uscendo dalla cabina. «Ve lo do io che mi restano zero anni di vita!»
Danilo sghignazza, ma smette subito quando la vecchia tira fuori il libretto degli assegni e dice: «Va bene, ditemi quanto volete!»
La ragazza seduta al banco vicino alla tenda si consulta con un signore in giacca e cravatta appostato lì vicino, poi si alza e bisbiglia qualcosa all’orecchio di Margherita.
La vecchia non batte ciglio. Compila e stacca l’assegno senza la minima esitazione, prima di ricevere una pila di fiche che non spetterebbe neanche a un neonato. Nel frattempo viene liberato un posto al tavolo da gioco, costringendo un povero diavolo che è rimasto quasi senza fiche a togliere il disturbo. Margherita si siede e subito un inserviente accorre per aiutarla a infilarsi il casco. Danilo si avvicina al tavolo col chiaro intento di gufare la sporca capitalista e si accorge di una cosa che prima non aveva notato. Le cinghie dei caschi sono chiuse con un lucchetto, rendendo impossibile qualsiasi tentativo di sottrarsi al proprio destino.
«Avete visto che bella camicia nera ho comprato ieri al mio fidanzato?» esordisce Margherita, rivolta agli altri giocatori. «E tu, Benito, toccami il culo che mi porti fortuna!»
Benito obbedisce con un sorriso stentato, mentre la vecchia butta sul tavolo una fiche da dieci. Il tipo incravattato bisbiglia qualcosa nell’orecchio del banco poi si allontana in tutta fretta.
Una rapida occhiata alle carte ricevute basta a Margherita per dichiarare: «Sto.»
L’odore di combine è nell’aria e anche gli altri decidono di stare, chi con diciotto, sedici o quindici, chi addirittura con tredici o dodici. La carta scoperta del banco è un re. Se l’altra fosse un asso, avrebbe ventuno d’emblée e batterebbe tutti. Ma l’uomo prende un’altra carta. Quattro di fiori. Quanto basta per sballare, avendo diciotto come punteggio iniziale, e pagare la posta a Margherita e agli altri. Il quattrocchi alla consolle schiaccia una quantità di pulsanti e subito le luci sul cilindro si accendono tutte del colore giusto, rosso comunista, per la gioia dei giocatori.
La mano successiva tutti puntano dieci anni e «stanno», certi che il banco sballerà ancora. E il banco sballa, obbligando l’apparecchio a fare gli straordinari.
Mentre Marx si rivolta nella tomba, Lenin si gira verso Danilo per commentare l’increscioso episodio. Ma il ragazzo è sparito.
Ricompare poco dopo da dietro la tenda rossa, le mani piene di fiche, in tempo per vedere il banco che sballa una terza volta.
Raggiunta un’aspettativa di vita di poco inferiore ai centoventi anni, Margherita è costretta al ritiro, per evitare che chi si era dovuto fermare a cento dia vita a un’altra rivoluzione, ancora più cruenta della prima. Fosse per lei, staccherebbe altri dieci assegni e andrebbe avanti fino a cinquemila anni, ma il tipo incravattato non sente ragioni. Se lasciasse prosciugare l’intera riserva di anni faticosamente accumulata nell’estate, i compagni russi lo caccerebbero a testa giù in un barile di petrolio, con una sigaretta accesa in bocca.
Sazi dei venti e passa anni conquistati nelle ultime mani, anche gli altri giocatori decidono di farsi da parte, lasciando il tavolo desolatamente vuoto.
«Sapevo che sarebbe successo» commenta Danilo sedendosi vicino a Lenin, «così sono corso a prendere le fiche. Purtroppo i pensionati hanno fatto razzia di quelle da uno e da due, perciò mi dovrò giocare cinque anni alla volta.»
Lenin impallidisce. «È sicuro di volerlo fare?» domanda. «Lei è giovane, ha ancora tutta la vita davanti, che bisogno ha di vincere degli anni extra?»
«Carpe diem!» cita il ragazzo. «Potrebbe non ricapitarmi più un’occasione del genere. Secondo la bilancia, vivrò fino a settantadue anni, quindi ne ho almeno ventotto da vincere. Con tutte le fiche che mi hanno dato, credo valga la pena fare un tentativo, no? E poi nel 2017 gli Stati Uniti dichiareranno guerra alla Cina e ci ammazzeranno tutti.»
«In bocca al lupo» conclude Lenin prima di buttare sul tavolo un pezzoda due.
Poco più in là un ragazzo tetraplegico, sprofondato in una sedia a rotelle piena di cinghie e imbottiture, confabula con una bionda signora di mezz’età che tiene in mano una manciata di fiche da dieci: «Più di dieci anni per volta non si possono giocare, mamma, ricordartelo o ci annullano la puntata. Ma vedrai che se continuiamo a sballare e il banco sta, ce la facciamo senza problemi.»
Ma l’eutanasia del tetraplegico comincia male. Ventuno d’emblée, con tanto di fante di picche accompagnato dall’asso di quadri. Danilo non è altrettanto fortunato e dice addio ai suoi primi cinque anni, battuto dal banco per diciotto a diciassette. Per rifarsi subito ne punta dieci e perde di nuovo pescando un nove con una donna e un quattro in mano. L’apparecchio fa il suo lavoro e, mentre gli anni di Danilo se ne vanno in fondo al cilindro, il cuoio capelluto pizzica come la pelle del braccio durante le iniezioni.
«Vacci piano, ragazzo» lo ammonisce Lenin, che nel frattempo ha già recuperato quattro anni. «Se vai avanti così, tra dieci minuti rischi di aver perso tutto. Non vuoi un po’ delle mie fiche da uno e da due?»
«Mi lasci stare!» sbotta Danilo. «Anzi, perché non se ne va? magari è lei che mi porta sfiga!»
Il banco non sbaglia un colpo e non ci vuole molto perché il tetraplegico abbandoni il tavolo con quarant’anni di sofferenze in meno da patire.
«Grazie, mamma, ti voglio bene» mormora tra la lacrime, mentre la donna lo spinge fuori dal padiglione.
A Danilo rimangono solo tre pezzi da cinque. I migliori anni della sua vita, con tutta probabilità. La fine dei venti, tutti i trenta e l’inizio dei quaranta. «E la fine e tutti i cinquanta e i sessanta e i settanta e gli ottanta» pensa il ragazzo cercando di farsi coraggio. «Posso uscire di qui adesso e campare cent’anni alla faccia di questi imbecilli. In fondo nulla è vero e tutto è permesso. Probabilmente l’unica che ci abbia davvero rimesso qualcosa è quella rincoglionita di Margherita.»
Ha mal di testa e i capelli gli bruciano da morire. Vorrebbe levarsi il casco e tirarlo nel muro. Ma non può. E forse vale la pena fare un ultimo tentativo.
Butta sul tavolo il terzultimo pezzo da cinque e incrocia le dita. Le carte arrivano in un lampo. Dieci di cuori e asso di picche. Ventuno d’emblée.
«Sì, vai così!» strilla eccitato, suscitando l’indignazione (e l’invidia) degli altri giocatori.
«Ventuno» dichiara al proprio turno, pronto a riprendersi i primi dieci anni.
Ma il banco lo gela: «Ventuno anch’io. Parità. La puntata rimane in gioco.»
Ma per giocare ancora, Danilo deve puntare di nuovo. Forse adesso gli farebbero comodo le fiche da uno e da due di Lenin. Ma l’altro fa finta di niente, costringendolo a tirare fuori altri cinque anni.
Stavolta gli arrivano un due e un quattro di picche, le carte peggiori del mazzo. «Beh, almeno non posso sballare» si consola prima di chiedere un’altra carta. Sei di fiori.
«Affanculo, se mi esce un dieci o una figura sono fuori. Ma non posso certo stare con dodici. Carta!»
Danilo ci soffia sopra, l’accarezza, la gratta, la bacia, sotto gli sguardi perplessi degli altri. Poi la solleva piano. Pianissimo, come fosse il coperchio della bara di Lenin, quello vero. E trova il re di denari!
Se Danilo fosse sul rogo al posto di Giordano Bruno, i capelli non gli brucerebbero così tanto, mentre i migliori anni della sua vita se ne vanno in fondo in cilindro, insieme a tutti gli altri. Ma non bisogna dimenticare che nulla è vero e tutto è permesso!
Sta per buttare l’ultimo pezzo da cinque, incurante del fatto che potrebbe uscire di lì come il ragazzo che ha incrociato arrivando, quando qualcuno alle sue spalle grida: «Maledetto bastardo, è tutta colpa tua!»
Danilo si gira per vedere un tipetto pelato con la bava alla bocca e gli occhi fuori dalle orbite, che inveisce contro il cilindro: «Sono venuto a giocare la settimana scorsa, ho perso tutto e adesso ho un tumore al cervello! Ma me la pagherai, bastardo, me la pagherai!»
Prima che gli energumeni appostati fuori possano intervenire, il calvo tira fuori una pistola e fa fuoco contro il cilindro. Una, due, tre, quattro, cinque volte e ancora, fino a esaurire l’intero caricatore.
Avvolto da una fitta rete di variopinte scariche elettriche, il cilindro esplode con un botto che rievoca quello udito nei pressi di Tunguska nell’estate del 1908.
Nella nebbiolina azzurra che satura l’aria e fa bruciare i polmoni, dopo i capelli, Danilo intravede gli anni migliori della sua vita e tutti gli altri, che svaniscono senza speranza.
Prima che la folla inferocita lo faccia a pezzi, gli energumeni trascinano il pazzo fuori dal padiglione verso la camera di una clinica psichiatrica (per quel poco che gli resta da vivere, magari a Yalta).
Danilo si infila in tasca l’ultima fiche rimasta, poi esce dal padiglione sperando che la bandiera rossa sventoli ancora, per entrare in acqua e non uscire più.
Marco Vallarino