Il brutto viene di notte

Racconto neonoir scritto per l’antologia “L’uomo nel cerchio” (Addictions, 2000)

Suona il campanello e aspetta, ma invano. Dalla casa proviene un frastuono immane, che non ha problemi a farsi sentire anche sul pianerottolo.

Hear their cries

The hardest part is the night

Non ha ancora capito bene perché è andato a casa della sorella. Dei genitori, più esattamente. Forse perché nonostante tutto, non vuole credere a quello che ha sentito, oppure perché muore dalla voglia di dare a Laura la bella notizia. Entrare non è mai stato così facile, con il mazzo di chiavi che la mamma gli ha lasciato “per ogni evenienza”.

In the night, hear their cries, in the night

Stay alive

Dentro è tutto buio, come se non ci fosse nessuno. Il frastuono proviene dalla camera in fondo al corridoio, quella dei genitori. Rock a tutto volume. Bon Jovi, se solo lui lo conoscesse.

The hardest part is the night

It’s the night, it’s the night.

Due marocchini che si sbattono sua sorella sul letto di mamma e papà. Questo è quello che vede entrando. Nell’intrico di corpi, è difficile individuare qualcosa di preciso, ma ciò che gli dà più fastidio è la differenza di colore.

“Laura!” ruggisce. “Che stai facendo?”

La ragazza è fatta come un caimano. “Leo, è tutto a posto, credimi” lo rassicura con voce stonata. “Ci stiamo divertendo un sacco, non lo vedi? Papà e mamma sono fuori, così per non stare da sola ho chiamato un po’ di amici. Questi sono Rachid e Mohammed.” I ragazzi sorridono. Sono strafatti anche loro. Nudi, si girano verso di lui e fanno per dire qualcosa, ma la Beretta li anticipa. Fuori uno. Fuori due.

In mezzo ai cadaveri, Laura urla, sapendo che tra poco toccherà a lei.

Infatti.

* * *

“Eccolo che arriva, il bastardo.”

“Già.”

I due uomini, uno alto e magro, l’altro un po’ più in carne, coi capelli precocemente ingrigiti, aspettarono che il ragazzo parcheggiasse la Z3 e uscisse allo scoperto. Scesero dalla macchina e gli andarono incontro. Illuminato dalla luce rachitica dei lampioni, il piazzale galleggiava in una penombra che regalava complicità. In giro non c’era nessun altro.

“Leo, vacci piano, okay?” disse quello alto, preoccupato.

“Tranquillo, Pino, tranquillo” ribatté l’altro.

Il ragazzo li osservò con espressione indecifrabile. Quando Leo lo chiamò per nome, Max rispose: “Sono io.”

“Polizia” annunciò Leo esibendo il distintivo. “Vorremmo farti qualche domanda.”

“Mmm.” Max non sembrava molto contento di quell’improvvisata. “Ma lo sapete almeno che ora è?”

“Mezzanotte e un quarto” rispose Leo, indifferente. “Vogliamo sapere dove sei stato stasera.”

“E perché mai?”

“Ehi bello, se non l’hai ancora capito, qui le domande le facciamo noi” gli ricordò Leo.

“Okay. Almeno ce l’avete un mandato?”

“Oh, non ci vuole mica un mandato per interrogare qualcuno” intervenne Pino, apodittico.

“Anzi” continuò Leo “se non rispondi in maniera soddisfacente, ti possiamo portare dentro per reticenza.”

Max non era convinto: “Siamo sicuri che quello che state facendo è regolare?”

“Senti, stronzetto.” Leo stava per perdere la pazienza. “Ti ho detto che qui le domande le facciamo noi. La tua situazione è già abbastanza compromessa, cerca di non peggiorarla.” Una pausa, per sottolineare bene l’ultima frase, poi l’uomo ripeté: “Allora, dove sei stato stasera?”

Max ci mise un po’ a rispondere: “A casa di un’amica.”

Leo ebbe un fremito. Pino lo guardò preoccupato, mentre lo sentiva chiedere: “E come si chiama questa amica?”

Max esitava ma Leo non gli diede tregua: “Forza, su! nome, cognome e domicilio.”

Il ragazzo capitolò: “Si chiama Laura. Laura Bianchi. Abita in via Schiva.”

Silenzio.

Leo sentiva la rabbia montargli dentro come uno tsunami. Digrignò i denti, strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. “Cosa le hai fatto?” chiese minaccioso. “Cosa lei hai fatto, pezzo di merda?”

“Niente, non le ho fatto niente” rispose Max, senza capire. “Ce la siamo soltanto spassata un po’ insieme. Voi piuttosto…”

“Spassata?!” lo interruppe Leo. “Che cazzo vuol dire spassata? Te la sei scopata? Eh, te la sei scopata, pezzo di merda?”

* * *

È l’una e mezza, ma la salagiochi è ancora aperta.

Lascia la macchina in mezzo alla strada e scende con la pistola già in pugno, il silenziatore innestato. Due ragazzi all’entrata se la danno a gambe, vedendolo arrivare, e fanno bene.

Il primo a andarci di mezzo è il gestore, Rico, un basettone ciondolante che si dice stia in piedi per scommessa (per vedere se cade a destra o a sinistra). Gli chiede della brandina, ma Rico nega. Peggio, fa finta di niente. E si becca una pallottola in fronte.

Dentro la sala si scatena il finimondo, tutti che scappano di qua e di là, ma senza troppo successo. Lui toglie di mezzo quelli che può, sghignazzando. Il più facile è l’handicappato che gioca ad Art of Fighting. Con quella carrozzina, dove cazzo crede di andare?

Tossicomani, spacciatori, taccheggiatori, pederasti, negri e bastardi di ogni tipo: chi più ne ha, più ne spari.

“Io non c’entro” dice un tale, rintanato in un angolo. “Io faccio l’editore.”

Si becca una pallottola pure lui. Tanto di questi tempi un editore morto non è mai un cattivo affare.

* * *

Max non si tirò indietro: “Certo che me la sono scopata! Cosa credi, che sia andato là per giocare a dama?”

Il respiro del poliziotto si faceva sempre più pesante. Gli occhi avevano un che di terrificante. Max fece un passo indietro.

“Leo, stai calmo” intervenne Pino, la mano sulla spalla.

“Bastardo!” gridò Leo mentre si scagliava contro il ragazzo.

Max scartò l’attacco senza difficoltà e l’uomo andò a sbattere il muso contro la facciata del palazzo.

“Bastardo!” ripeté Leo sanguinante. “Grandissimo bastardo! Come hai osato fare una cosa del genere, proprio tu?”

Max era attonito. Lanciò a Pino uno sguardo interrogativo, ma il poliziotto era troppo imbarazzato per rispondere.

“Oh!” sbottò il ragazzo. “Ma si può sapere a te che cazzo ti frega? Cos’è, la tua…”

“È mia sorella!” strillò il poliziotto. “Mia sorella. E tu devi lasciarla stare, hai capito?”

“Porca troia!” Max si chiese come avesse fatto a non pensarci prima. “Laura me l’aveva detto che aveva un fratello.”

“Ah, e così ti ha parlato di me. E non ti ha spiegato che sono un poliziotto e che se non giri al largo finisci male, eh?”

“In effetti me l’aveva detto che facevi un lavoro del cazzo, ma non credevo fino a questo punto.”

Leo era paonazzo. “Non è vero” replicò smarrito. “Non è vero, Laura mi vuole bene, mi rispetta. Sono suo fratello maggiore, deve rispettarmi. È orgogliosa del mio lavoro.”

“Se lo dici tu” lo assecondò il ragazzo.

“Sì, lo dico io, chiaro? E ti dico anche di sparire, brutta diarrea che non sei altro. Stai lontano da mia sorella, non voglio più vederti qui in giro. Lei non ha tempo da perdere con quelli come te, deve pensare al suo futuro.”

“Sì, certo, al suo futuro. A quale cazzo prendere domani.”

“Stai zitto!” La faccia di Leo era una maschera di rabbia, oltre che di sangue. “Chissà quante altre ne hai rovinate, con quella merda che spacci.”

“Ehi, amico, vacci piano. Io non spaccio una minchia. Studio ingegneria al Politecnico, se lo vuoi sapere. Sono uno tranquillo, un bravo ragazzo di buona famiglia.”

“Non è vero! Lo sappiamo tutti come te li procuri, i soldi che ti sputtani in giro. Come cazzo te la saresti comprata questa macchina, altrimenti?”

“Non avete lo straccio di una prova.”

“Non è vero!”

“Mpf! sei patetico. Dici sempre non è vero.”

“Non è ve…” Leo non riuscì a fermarsi in tempo e Max scoppiò a ridergli in faccia, plateale come il Grande Fratello.

Pino sudava freddo. Leo era fuori di testa, chissà cosa poteva combinare. Si era già pentito mille volte di averlo accompagnato e non avrebbe fatto fatica a pentirsene altre mille. Il ragazzo era un osso duro. Forse, se non fosse stato così coinvolto, si sarebbe goduto lo spettacolo.

“Ascoltami bene, faccia di merda.” Leo era più deciso che mai.

“Ti ascolto, fratello, anche se dici solo minchiate.”

“Non è…” Leo faceva progressi, ma era ancora troppo lento per sperare di vincere almeno un round. “Bastardo, sei proprio un bastardo. Quelli come te dovrebbero strozzarli col cordone ombelicale appena nascono. Stai lontano da mia sorella o giuro che ti ammazzo.”

“Credi davvero che se anche io smettessi di chiavarmi tua sorella, cambierebbe qualcosa? Non so se lo sai, ma Laura se la fa con tutta la sala giochi. Se non ci credi, vallo a chiedere a Rico, il padrone. Fatti raccontare della brandina che ha messo nel retro. Con la storia dell’affitto, si è tirato su un bel giro e Laura gli dà una grossa mano. Non so se prenda una percentuale, ma posso assicurarti che anche a casa si dà un gran daffare. Magari stasera dopo che sono andato via io, è venuto qualcun altro. Mi spiace, bello, ma ti devi rassegnare. Tua sorella è una puttana.”

Era vero. Stavolta Leo non poteva negare. Laura era una puttana. Il poliziotto non sapeva della brandina in sala giochi né degli “straordinari” a casa, però si ricordava fin troppo bene delle due volte in cui la ragazza era rimasta incinta. Nessun dubbio che Laura avesse preso più cazzi che caffè nella vita, ma a Leo non andava giù che sua sorella, la sorella di un poliziotto, se la facesse con uno spacciatore. Uno, per giunta, che nessuno era mai riuscito a incastrare.

“Non siamo noi” proseguì implacabile il ragazzo. “È lei che ci viene a cercare. Il fatto poi che qualcuno la paghi o le faccia dei regali, mi sembra normale. A diciott’anni non è che ti girino tutti ‘sti soldi e uno fa quello che può. Non te la prendere, dài. Fatti una birra e vedrai che ti passa tutto, okay?”

Max attese inutilmente una risposta, poi decise che ne aveva abbastanza. “Beh, buonanotte” salutò, avviandosi verso il portone del palazzo.

Leo sapeva che non poteva lasciarlo andare via così. Era un poliziotto, doveva farsi rispettare.

“Leo, sei impazzito?” gridò l’altro.

Il portone si stava chiudendo, ma il proiettile passò lo stesso. Colpì il ragazzo all’altezza della nuca, facendogli saltare le cervella in un macabro fuoco d’artificio. Leo osservò compiaciuto la sua Beretta 92s col silenziatore. Lavorare così era tutta un’altra cosa. Dava più soddisfazione. E poi era più facile.

“Che cazzo ti è saltato in mente di sparargli?” Pino doveva sempre rompere i coglioni, altrimenti non era contento.

“Pino, vedi di farti i cazzi tuoi almeno stasera, se no finisci male.”

“Leo, vaffanculo! Ti avevo detto di andarci piano e…”

Non aggiunse altro. Colpito al torace, crollò a terra con la certezza che non si sarebbe più alzato.

“Vaffanculo te!” esclamò Leo, in tono definitivo.

Rapido, raggiunse la macchina e salì a bordo. Posò la pistola sul sedile accanto, poi mise in moto e uscì dal piazzale.

La notte era lunga e c’era ancora molto da lavorare.

* * *

Non pago dei due morti nel piazzale, del massacro sul letto di casa e della strage in sala giochi, Leo continua a sparare (e a sghignazzare), almeno finché non sente le sirene in lontananza.

Arrivano i suoi.

O meglio, i loro.

Si ferma a guardare la sala disseminata di cadaveri, alcuni ancora avvinghiati ai coin-op, e capisce. Michael Douglas ha fatto scuola.

Anche troppo.

Il freddo del metallo del silenziatore è una goduria per la bocca, riarsa dalla rabbia e dall’eccitazione delle ultime ore.

“Click” fa il grilletto, scattando a vuoto.

Leo si dispera. Si accascia in mezzo a due coin-op e scoppia a piangere, pensando che non è così che dovrebbe finire.

I poliziotti, accorsi a decine sul posto, chiamati da chissà chi, ci mettono un po’ a trovarlo e a capire che cosa sia successo.

“Click” è tutto quello che riesce a singhiozzare Leo.

“Bang” risponde la pistola del poliziotto.

Marco Vallarino