Racconto horror pubblicato in Nero Liguria (Perrone Lab, 2011)
Quando Martin scoppiò a piangere non fu per le tre ragazze morte. Le lacrime iniziarono a scorrere perché di nuovo non era riuscito a bere il sangue della sua vittima senza vomitare.
Così non sarebbe mai diventato un vampiro. In realtà, nei primi ventisei anni di vita, non aveva mai pensato di potercela fare. Tutti i libri di Bram Stoker, Charles Nodier, Joseph Sheridan Le Fanu, Anne Rice, i film delle serie di Twilight e Dal tramonto all’alba, i telefilm di Salem’s Lot, True Blood e Vampire Diaries, gli erano piaciuti molto ma senza mai dargli la speranza di potersi trasformare in pipistrello e volare via nelle tenebre. Poi aveva trovato Darkiss e tutto era cambiato.
Un gioco scaricato da Internet, senza grafica né sonoro, con testi grigiastri su sfondo nero a descrivere lo scenario da incubo in cui il protagonista vestiva i panni di un malefico vampiro. Un mostro dalla storia millenaria, che una forza misteriosa riportava in vita dieci anni dopo essere stato giustiziato, per dare inizio alla sua vendetta.
Per uno strano scherzo del fato, il vampiro era tedesco come lui e aveva lo stesso nome. Martin si appassionò alla storia. Pur non avendo alcuna esperienza di giochi testuali, trascorse intere nottate a girovagare per il sotterraneo in cui il suo omonimo si trovava prigioniero. Impiegò settimane per esplorare tutto il rifugio, aprire le porte e scoprire i passaggi segreti che proteggevano l’accesso alle stanze più oscure, senza cadere vittima delle trappole preparate da chi voleva rimanesse per sempre sottoterra. Entrò in simbiosi col gioco, imparando a memoria ogni riga dei testi scritti sulla falsariga di Zork e Acheton, e ogni volta che leggeva un riferimento al vampiro Martin V. avvertiva un brivido di piacere serpeggiargli lungo la schiena.
Terminare con successo l’avventura, dopo aver superato croci, specchi, campi d’aglio, ostacoli di ogni tipo e incontrato altri vampiri, anime dannate, demoni infernali, fu una enorme soddisfazione, ma anche l’inizio della fine.
Il fatto che vivesse a Triora influenzò moltissimo la decisione di emulare le gesta del vampiro Martin V. L’antico borgo arroccato sulle alture della Valle Argentina, nel remoto entroterra dell’estremo ponente ligure, godeva da secoli di una fama sinistra per il processo alle streghe allestito dalla Santa Inquisizione alla fine del 1500. Un evento che portò alla morte di molte sventurate fanciulle, accusate di aver provocato coi loro riti sacrileghi siccità, carestie e pestilenze. Non tutte le presunte streghe finirono però bruciate sul rogo. Alcune riuscirono a porre fine alla loro vita in modi meno crudeli, suicidandosi col veleno in carcere oppure precipitando da finestre e terrazzi. Altre ancora scomparvero senza lasciare traccia e furono proprio loro ad alimentare le leggende che fecero di Triora il borgo delle streghe.
La famiglia di Martin era tedesca e aveva scelto di comprare casa da quelle parti solo perché era un bel posto per trascorrerci le vacanze e vari enti e amministrazioni garantivano finanziamenti interessanti a chi si prendeva la briga di acquistare e ristrutturare i vecchi ruderi della campagna. Lui stava facendo una discreta fortuna come traduttore, soprattutto dall’italiano. Una simile attività gli permetteva di lavorare ovunque e gli stessi genitori non si stupirono più di tanto quando decise di stabilirsi in pianta quasi stabile nella casa di Triora. Internet era arrivata anche laggiù e bastava un quarto d’ora di macchina per raggiungere centri trafficati come Taggia o Sanremo. Inoltre, il posto era splendido e la sua grazia bucolica non veniva minimamente intaccata dalle storie terribili che (apparentemente) lo riguardavano.
Martin non era mai stato interessato alle faccende delle streghe, perché nella sua testa c’era posto solo per i vampiri. Fin da piccolo le storie dei succhia sangue lo avevano appassionato e terrorizzato. Apparentemente si trattava di favole, ma ovunque si leggeva che l’abilità principale dei vampiri stava proprio nel far credere che non esistessero, permettendogli di compiere le più efferate imprese senza che nessuno si adoperasse per fermarli. Lui però non si sarebbe mai sognato di combattere creature così potenti.
A fronte di una simile, smisurata forza e del fascino che esercitava, la cosa più sensata da fare era entrarne a farne parte. A meno di seguire le gesta del mostro parigino Nicolas Claux, diventare un vampiro sembrava un sogno impossibile da realizzare, eppure Martin non aveva mai smesso di crederci, continuando a documentarsi e a cercare qualcuno o qualcosa in grado di trasformarlo. Per anni trovò solo i consueti riferimenti ai morsi e al sangue dei vampiri, ai riti satanici, alle morti maledette o invendicate. Tutta roba al di fuori delle sue possibilità e comunque troppo superficiale per potergli essere utile. Poi gli capitò davanti agli occhi la password per la sezione segreta di Darkiss.
L’orrido gioco di vampiri terminava non solo con la promessa di un ancora più trucido seguito, ma anche con un comando speciale da digitare per accedere a una pagina con contenuti speciali. Con le mani tremanti Martin inserì la parola e si ritrovò davanti a un macabro messaggio di congratulazioni, al quale faceva seguito l’elenco dei “fortunati” che avevano avuto l’onore di essere trasformati in vampiri e introdotti nella cripta di Darkiss, dopo aver seguito le istruzioni riportate più sotto.
A Martin girava la testa. Le ultime righe della sezione segreta riportavano una sinistra invocazione al dio Valmar, il sole rosso a otto raggi che illumina le buie notti dei vampiri. Tutto ciò che doveva fare per trasformarsi in vampiro era recitare la sinistra litania e poi inviare all’autore del gioco una mail con la password della sezione segreta e le mosse finali del gioco. Così anche lui sarebbe entrato nella cripta, divenendo a tutti gli effetti una creatura delle tenebre pronta a sguazzare nel sangue degli innocenti.
Provare non costava nulla (o almeno così credeva). Lesse e rilesse decine di volte con gli occhi i versi dell’invocazione. Li imparò a memoria e quando iniziò a recitarli, sopraffatto dal delirio, si accorse di avere la voce che tremava. Ricominciò daccapo fino a pronunciarli con un tono adeguato. Erano poche righe e le finì in un lampo. Poi andò via la luce.
Seduto alla scrivania dello studio, davanti al computer, Martin sentiva il cuore battergli all’impazzata, mentre la tenebra lo stringeva nelle sue spire. Fuori era notte fonda e dai vetri delle finestre non giungeva che altro buio. Per fare un po’ di luce attivò il display del cellulare, posato accanto alla tastiera. Il barbaglio azzurrognolo lo guidò fuori dalla stanza e lungo il corridoio, fino all’interruttore della corrente, che riaccese con un click.
Tornato nello studio, riavviò il computer e scrutò la schermata del client di posta elettronica, indeciso sul da farsi. Il black out era stato un avvertimento di qualche tipo? Doveva spedire la mail con le mosse finali del gioco per completare – in chissà quale modo bizzarro – l’agognata trasformazione oppure era meglio lasciare perdere? Rimanere col dubbio sarebbe stato peggio di qualsiasi cosa, perciò si sbrigò a comporre e inviare il messaggio. Un’ora dopo ricevette la risposta che annunciava l’ingresso nella cripta di Darkiss con un eloquente: «Benvenuto, vampiro! Ora potrai finalmente riposare in pace… fino al prossimo morso!»
Martin si domandò come potesse verificare l’efficacia della trasformazione. La risposta più ovvia lo eccitava e terrorizzava allo stesso tempo, impedendogli quasi di respirare. Alla fine scelse di andare per gradi. Trascorse la notte insonne, in trepida attesa dell’alba, e la delusione fu grande nel notare che i raggi del sole non gli arrecavano alcun danno. Un vampiro si sarebbe almeno scottato nell’affacciarsi alla finestra, invece lui ne riemerse intonso. In realtà non tutti i mostri succhia sangue erano così sensibili alla luce, rimuginò Martin, prima di richiudere le persiane e andare a letto per recuperare il sonno perduto. Presto dormire di giorno divenne una consuetudine, che lo portò a vivere tra il tramonto e l’alba. Si svegliava nel tardo pomeriggio, quando il pallido sole dicembrino era appena calato. Le poche volte che usciva nel crepuscolo era per fare la spesa alla bottega, con aspetto sempre più fantasmatico e movenze furtive che avrebbero fatto invidia a un ladro. Una volta sobbalzò alla vista di un grosso gatto nero che gli attraversava la strada, un’altra per poco non fu colpito da uno specchio caduto da chissà dove. In seguito si accorse di aver sbagliato a non fare attenzione a certi particolari, ma allora era troppo preso dal pensiero di procurarsi una bara.
Dormire di giorno e stare sveglio la notte non gli bastava più. Per diventare un vero vampiro avrebbe dovuto «riposare» in un luogo adeguato, da cui forse sarebbe riuscito a ricavare l’energia necessaria a ultimare la trasformazione in nosferatu. L’importante era agire con discrezione. Se si fosse fatto recapitare un feretro davanti alla porta di casa, i vicini e soprattutto i cacciatori di vampiri che potevano nascondersi nei paraggi avrebbero intuito che cosa stava accadendo, con conseguenze disastrose.
Giù in Riviera, tra Taggia e Sanremo, non faticò a trovare un negozio di pompe funebri. Il difficile fu far capire al titolare di cosa avesse esattamente bisogno. Non c’erano infatti bare stile Ikea che potessero essere smontate e rimontate al bisogno. L’insistenza di Martin, per quanto inquietante, fece capire all’uomo che poteva scapparci l’affare e lo spinse a proporre un feretro “su misura” più caro degli altri, ma assolutamente adatto alle sue esigenze. L’altro staccò l’assegno con gli occhi che brillavano. Una settimana dopo la bara era pronta.
Montarla pezzo per pezzo nel salotto di casa fu eccitante, ma non quanto entrarci. Disteso nel feretro, che lo fasciava come un guanto, iniziò a tremare da capo a piedi. Chiuse gli occhi e un inaspettato panico lo invase, obbligandolo a riaprirli subito. Non ebbe neppure il coraggio di provare a chiudersi dentro e in breve scoprì che dormire “laggiù” sarebbe stato complicato. La compattezza della cassa, costruita su misura per lui, gli impediva qualunque movimento e lo costringeva a un rigor mortis che rendeva difficile rilassarsi a sufficienza per addormentarsi. Passò intere giornate adagiato là dentro, senza chiudere occhio, crollando poi di notte sulla scrivania dove lavorava, e solo la ferrea volontà di “completare” la trasformazione gli permise di perseverare.
La prima mattina che prese sonno fu svegliato dall’urlo di una ragazza. In realtà, più che un urlo era una risata, ma bastò a farlo destare di soprassalto. Tra i ruderi di Triora, non capitava spesso di sentire qualcuno schiamazzare. Affacciandosi alla finestra, Martin si sorprese di quanto il sole di mezzogiorno gli ferisse gli occhi. Sorrise, senza ritrarsi. La ragazza, a passeggio per il carruggio con un’amica, incrociò per caso il suo sguardo e ricambiò il sorriso d’istinto.
«Ciao!» strillò continuando a fissare il volto pallido che la spiava dall’alto. «A stasera!» aggiunse con un cenno di saluto, prima di sparire in fondo alla via.
Martin la osservò allontanarsi perplesso. Poi si ricordò di aver già visto la ragazza e di conoscerla pure. Bionda, eterea e sinuosa come un fumetto, era un’olandese che, come lui, veniva i vacanza a Triora. L’altra doveva essere la sorella o un’amica che ospitava. Controllando su Internet, scoprì che la sera ci sarebbe stata una festa in un locale del paese, in occasione della ricorrenza di Santa Lucia. Rivedere la ragazza gli sarebbe piaciuto, ma sapeva che non avrebbe mai trovato il coraggio di sfruttare il suo saluto/invito per agganciarla.
In realtà, non aveva mai pensato molto alle donne, solo ora che doveva testare le sue capacità di vampiro ne percepiva l’attrazione. Se fosse stato davvero ciò che sperava, gli sarebbe bastato uno sguardo per far fare alla ragazza ciò che voleva. Ma di nuovo aggirò la questione suggerendosi di andare per gradi.
Ormai però la voglia di entrare in azione gli era venuta. La vista dell’olandese gli aveva fatto ribollire il sangue nelle vene, anche se avrebbe dovuto avere il cuore freddo come una pietra. Attese fino al calar del sole, poi si preparò all’inevitabile. L’ipotesi di andare a rimorchiare l’olandese alla festa la scartò subito. Per fare ciò che aveva in mente doveva lasciare meno tracce possibili e in un buco come Triora non sarebbe passato inosservato un approccio con la ragazza (oltre che la sua sparizione). Sull’Aurelia, verso Sanremo, avrebbe trovato ciò che faceva al caso suo.
Per leggere la seconda parte di questo racconto scrivi a ovranilla @ gmail.com :)