Racconto di Marco Vallarino pubblicato sul numero 14 di M-Rivista del Mistero (Alacran, 2004).
Lo confesso, commissario. Siamo stati noi a uccidere quelle ragazze. Il vero mostro però è un altro. Mi lasci spiegare. Sono passati tanti anni ma ricordo ancora tutto. Era il 1982 quando lo abbiamo incontrato la prima volta. Avevamo organizzato una mostra collettiva nella galleria di un conoscente. Sa, ci è sempre piaciuto dipingere, anche se non siamo che dei dilettanti. Alla mostra non era venuto quasi nessuno, a parte qualche amico. E lui. Un giovanotto biondo dagli occhi azzurri, sprofondato in una carrozzella spinta da una ragazza con un cappotto antracite. Girarono a lungo per le sale e i corridoi, soffermandosi davanti ai quadri che ritraevano donne nude. «Come faranno quei due a letto» pensai spiandoli da lontano. Erano lì da più di un’ora, quando la ragazza ci avvicinò. «Il padrone vuole parlarvi» disse sottovoce.
Nell’ufficio della galleria il giovanotto ci raccontò di essere rimasto paralizzato in seguito a un incidente in moto. Si chiamava Massimo, era bello, giovane e ricco, ma per il resto della vita non avrebbe più potuto godere con una donna. Una condizione terribile, senza scampo. Solo l’interesse per la pittura lo consolava. Inchiodato sulla sedia a rotelle, si sentiva in buona compagnia davanti ai dipinti inchiodati alle pareti. I nostri quadri gli piacevano così tanto che si offrì di comprarli tutti. A una condizione. Non avremmo mai dovuto accettare, ma avevamo bisogno di soldi e ci piaceva l’idea di fare il tutto esaurito, come i grandi maestri.
Uccidemmo la prima ragazza poche settimane dopo. La freddammo in macchina, insieme al moroso. Avevamo una paura del diavolo, ma andò tutto bene. Portammo a Massimo ciò che ci aveva chiesto e lui sembrò contento. Ci diede degli altri soldi e ce ne chiese ancora. Lasciammo la casa, una splendida villa tappezzata di quadri, pensando a cosa fosse meglio fare. L’omicidio dei due ragazzi aveva fatto molto scalpore. Leggendo i giornali scoprimmo che la pistola e i proiettili che Massimo ci aveva dato per fare il lavoro erano già stati utilizzati per altri delitti. Tornammo da lui per dirgli che avremmo smesso, ma lui ci offrì così tanti soldi che fu impossibile rifiutare. Diceva che grazie a noi era tornato a godere, che anche per uno come lui poteva esserci speranza. Continuammo per anni portandogli sempre più roba, cercando di non pensare a cosa potesse farne. Per depistare le indagini, ci consigliò di inscenare dei riti satanici sui luoghi del delitto. La polizia arrestò un sacco di gente, permettendoci di tirare il fiato per vari periodi, nonostante le richieste di Massimo si facessero sempre più esigenti. Ci fermammo solo quando il ministro mise una taglia di mezzo miliardo sulla nostra cattura. Avevamo messo da parte un bel gruzzolo e ci sembrava stupido tirare troppo la corda.
Stavolta non fece una piega. Forse aveva già pronto qualcuno con cui rimpiazzarci, visto che ci chiese di restituirgli la pistola. L’ultima volta che andammo da lui insisté perché ci fermassimo a cena. Accettammo solo per paura di contraddirlo. Mangiammo con gusto finché non fu annunciato il piatto forte della serata. La ragazza che assisteva Massimo, imboccandolo e dandogli la bere, portò in tavola uno spezzatino di carne con patate. Assolutamente delizioso, ma con un sapore strano, dolciastro, che nessuno di noi riuscì a identificare. Quando chiedemmo di che cosa si trattasse, Massimo sogghignò. Lasciò che la ragazza gli pulisse le labbra e rispose: «Non indovinate?»
Indovinammo eccome, maledizione! Non dimenticherò mai quel momento. Vomitammo per strada, nessuno di noi sarebbe rimasto in quella casa un minuto di più. Capisce adesso, commissario? ci arresti pure, racconti ai giornali quello che vuole. Ma finché non prenderete lui, questo orrore non finirà. Le ragazze continueranno a morire e lui continuerà a mangiarle.