Liberazione sommaria

Racconto noir pubblicato in “Crimini di regime” (Laurum, 2008)

“Il 25 aprile 1945 è stato il giorno più bello e importante della mia vita.” A ottant’anni suonati, a oltre cinquanta dalla fine della guerra, Felice non si stanca mai di ripeterlo. Ma se le imprese di eroico partigiano che ha fatto piazza pulita di nazisti e fascisti sono per Felice motivo di grande orgoglio, per suo nipote Filippo sono solo un abisso di noia in cui, se appena è possibile, evita di cadere, lasciando che siano le mura di casa ad ascoltare i racconti del nonno, partigiano sì, ma anche logorroico, rompiscatole, prepotente, egoista.

Contrariamente alla maggior parte dei ragazzi della sua età, Filippo lavora e guadagna bene. La laurea in informatica gli è valsa molte soddisfazioni, ma per nonno Felice il nipote è uno smidollato incapace di resistere alla nuova ondata di fascismo che sta sommergendo l’Italia. Peccato che lui sia troppo vecchio per imbracciare il fucile e tornare sui monti, altrimenti gliene farebbe vedere delle belle. Deliri di un vecchio rimbambito, pensa Filippo che, da quando i genitori sono morti in un incidente, è costretto a viverci insieme, in una casa troppo piccola per tutti e due. Dovrebbe cambiare aria, andare a vivere da solo, ma forse c’è un modo più semplice (e redditizio) per sistemare le cose.

La sera del 24 aprile, durante l’ennesima cena a carattere “edilizio” (muro contro muro), Filippo aspetta che il prostatico vegliardo vada in bagno, poi recupera la boccetta di sonnifero che il vecchio usa per addormentarsi e gliene versa una dose abbondante nel bicchiere. Il nonno torna al desco con la fierezza di sempre e manda giù vino e sonnifero senza battere ciglio. Poco dopo precipita in un sonno profondo e Filippo non si tira indietro.

La corda per impiccarlo l’aveva già preparata da tempo. Ci vuole un po’ perché riesca a appenderlo a una trave del soffitto, ma è un piacere vederlo oscillare, spacciato, come il pendolo che batte l’ora della riscossa. Una sedia rovesciata sotto i piedi e un biglietto con su scritto: “Non posso più vivere in questo mondo di fascisti. Meglio morti che fascisti!” completano quella che per Filippo è una Liberazione a tutti gli effetti. Senza dimenticare l’eredità, che con tutto quello che il nonno aveva confiscato ai tempi della Resistenza è una magnifica ciliegina sulla torta.

Filippo va a letto con un sorriso extralarge sulle labbra. Eccitato com’è, ci mette un po’ a addormentarsi, ma la mattina dopo non ha problemi a saltare giù dal letto per chiudere il conto al vecchio.

Sconvolto, chiama la polizia dicendo di aver trovato il nonno impiccato in cantina. Il biglietto dovrebbe bastare a toglierlo da ogni imbarazzo. È sempre stato bravo a imitare le calligrafie degli altri e poi lo sanno tutti che il vecchio era ossessionato dal ritorno dei fascisti.

Mentre aspetta le forze dell’ordine, Filippo osserva soddisfatto il frutto del suo lavoro e intona: “Oh, nonno ciao, nonno ciao, nonno ciao, ciao, ciao! Questa mattinaaa… mi son svegliatooo… e ti ho trovato impiccato!”

Il collo gonfio, il volto tumefatto, gli occhi vitrei fuori dalle orbite, nonno Felice se ne va chiuso in un sacco di plastica nera verso un’autopsia destinata a concludersi con un nulla di fatto. Filippo accompagna i poliziotti alla porta e li saluta mogio mogio, poi riempie il portafoglio di euro, dà una lucidata alla carta di credito e esce a festeggiare. Bar, negozi, ristoranti, pub, discoteche. Filippo si dà alla pazza gioia.

Alle quattro del mattino, quando esce dall’ultima discoteca, qualcuno grida: “Guardate! È lui, il nipote di quel bastardo di partigiano!”

Filippo si gira per vedere un’orda di naziskin armati di coltelli, catene, anfibi dalle punte corazzate, borchie acuminate e brutte intenzioni.

“Sieg Heil!” prova a dire in sua difesa, il braccio teso più che può, ma gli altri non lo sentono neanche. Suo nonno aveva resistito venti mesi, lui neanche cinque minuti.

Marco Vallarino