Racconto noir pubblicato sul settimanale La Riviera del 30 gennaio 2004 e nella antologia “La Liguria nero su bianco” (ed. Il Foglio, 2008)
I due metronotte intascano i soldi senza battere ciglio e si fanno scrupolosamente da parte. Capitan Uncino e il resto della banda irrompono nel Casinò di Sanremo, trionfanti come Goldfinger ai tempi dell’assalto a Fort Knox. Le grandi sale deserte sono uno spettacolo tanto insolito quanto inquietante, ma loro hanno troppo da fare per pensarci.
Nel silenzio post chiusura, i passi dell’hacker che si affretta verso la sala regìa rimbombano come Dresda nel ’45. All’uomo – un gobbo misogino che colleziona cartoline porno – bastano pochi minuti per mandare in coma il sofisticato sistema di telecamere a circuito chiuso che da vent’anni vigila sui tavoli da gioco. Ancora meno occorre a Uncino per spogliare la ragazza che li accompagna e distenderla sul tavolo del Black Jack.
Lo stregone gli chiede per l’ultima volta se è proprio sicuro che sia vergine e lui gli risponde che una così brutta deve esserlo per forza. La massiccia dose di eroina che le hanno iniettato impedisce alla ragazza, Miriam, di essere ferita a morte dalla crudeltà della battuta. Tuttavia, se anche fosse in grado di capire qualcosa, Miriam “tutta ciccia e brufoli” – come la chiamano a scuola – non potrebbe che confermare la teoria di Uncino: piacere, sono Miriam, sono brutta e sono vergine.
Sacrificio umano sul tavolo verde
Non se lo aspettava di certo, la cicciona, di finire la giornata nuda su un tavolo del casinò, quando alle sette della mattina si era alzata per andare a scuola e quando alle tre del pomeriggio era uscita di casa per andare a fare le vasche in corso Matteotti. Dopo averla seguita nel parcheggio sotterraneo vicino al Palafiori, Uncino l’ha fatta sparire come un prestigiatore fa sparire il fazzoletto che poi ti ritrovi dietro all’orecchio. Miriam il fazzoletto ce l’ha in bocca e Uncino lo spinge sempre più giù (perché non sbavi sul panno verde), mentre lo stregone recita formule arcane, invocando Satana, Belzebù, Abraxas, Baal e chi più ne ha più ne invochi.
La ragazza ci mette un po’ a tirare le cuoia, a morire vergine come il Pascoli e, per il buon cuore di Uncino, ladro gentiluomo che “tiene famiglia”, è una sofferenza tenerla sotto fino alla fine. A un tratto, quando la melopea dello stregone sembra aver raggiunto il culmine, l’uomo sente un crepitio e ha la sensazione che la luce vada e venga troppo spesso, ma forse dovrebbe smetterla di guardare e riguardare L’esorcista e di credere al Diavolo con la d maiuscola.
Chissà se Miriam crede – credeva – al diavolo, quasi gli dispiace non poterglielo più chiedere, ma quando allenta la presa dal collo tumefatto, Uncino in fondo si sente soddisfatto (di respirare ancora). Lo stregone – Maestro, come ama farsi chiamare – ha finito. Con tutta probabilità, da necrofilo incallito qual è, muore dalla voglia di abusare della cara estinta, ma il bravo Uncino conosce il mestiere e sa che non bisogna lasciare tracce in giro. Altrimenti perché avrebbe sacrificato il suo fazzoletto migliore? Già immagina il dolore che proverà quando lo vedrà sciogliersi nell’acido insieme al cadavere di Miriam, ma pazienza. Se ne farà regalare un altro uguale dall’esimio signore che gli ha commissionato il lavoro.
Una vergine sacrificata a Satana e compagnia brutta per sbancare il tavolo del Black Jack il giorno del prossimo plenilunio. Un tipo davvero raffinato, il signor S. C. Soldi Cerco, Satana Chiamo, o forse qualcos’altro. L’importante è che si ricordi di versare metà della vincita sul conto dell’associazione (no profit) Anatas. Altrimenti il Maestro potrebbe innervosirsi e ricordarsi che S. C. ha una figlia segregata in casa dalla madre per preservarne la virtù. Uscendo dal casinò con il cadavere di Miriam in spalla, Uncino pensa a dove andrà in vacanza stavolta e, quando rincontra i due metronotte, fa un cenno di saluto e mormora: “Alla prossima.”
Marco Vallarino
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