A piedi nudi nel sangue

Racconto horror pubblicato in “Horror Lovers” (Cordero, 2013)

1.

Da bambina le torri le avevano sempre fatto paura. Prima ancora di vederne una vera, era rimasta turbata dalle illustrazioni dei libri di favole che raffiguravano, in scenari spesso inquietanti, austere costruzioni lunghe e strette, dall’aria minacciosa, in cui venivano imprigionate indifese fanciulle e dimoravano malvagi stregoni, fattucchiere, mostri spaventosi, demoni infernali.

A sei anni, bastava che sentisse il suono della parola «torre» per impallidire e tremare, dopo tutte le oscure storie sentite su quei posti maledetti. I compagni di scuola più perfidi gliela gridavano in faccia a perdifiato, facendola scappare a gambe levate, con le lacrime agli occhi.

Poi, a un compleanno, un’amica della madre le aveva regalato il Gioco dell’Oca, passatempo popolarissimo tra i più piccini, ancora sprovvisti di Internet e Play Station. Il tabellone del gioco aveva però un particolare che le aveva mandato il cuore in gola. La casella della torre, in cui si rimaneva imprigionati, senza più poter tirare i dadi, fino all’arrivo di un’altra pedina, che liberava quella che c’era ma rimaneva a sua volta imprigionata, in una infinita e angosciante sequenza di porte chiuse e (forse) mai più riaperte.

Per poco non era scoppiata a piangere quando l’aveva vista e aveva letto il regolamento, suscitando le reazioni allarmate di chi la festeggiava. Si era sempre rifiutata di giocarci, temendo che la prima volta che lo avesse fatto sarebbe subito rimasta imprigionata nella torre, senza poterne più uscire. Qualche volta l’aveva anche sognata e si era svegliata nel cuore della notte, urlando – madida di sudore – quando il lancio dei dadi l’aveva precipitata nella casella maledetta, da cui non si sarebbe più mossa.

Anche mentre guardava i cartoni animati, o gli spettacoli per bambini alla tivù, teneva il telecomando stretto in mano, pronta a cambiare canale non appena si fosse palesata l’orrida inquadratura di una torre.

Pure i campanili delle chiese la mettevano a disagio, ma il peggio era arrivato alla gita scolastica di terza elementare, durante la visita a un borgo medievale. Già dal finestrino del pullman – che si avvicinava con lentezza inesorabile all’agglomerato di case – Elena aveva scorto l’affusolato edificio nero ergersi tra le costruzioni, tetro e ostile come un patibolo. Era scesa con le gambe che le tremavano, senza trovare il coraggio di chiedere a nessuno se la torre fosse compresa nella visita all’antico villaggio.

Tenendosi per mano con le amiche del cuore, aveva mosso i primi passi nel borgo quasi senza respirare, cercando invano di distogliere lo sguardo da ciò che la sovrastava come una condanna a morte scritta col sangue di un’oca sgozzata per la grande occasione.

Di nuovo, aveva pensato che se fosse entrata non sarebbe più uscita. Poi i compagni avevano notato la sua agitazione, il pallore del volto, le occhiate febbrili che lanciava all’edificio e avevano ricominciato a prenderla in giro, strillando: «La torre! Elena ha paura della torre! Elena ha paura, paura, paura!»

La bambina era stata quasi felice che avessero ripreso a darle il tormento, servendole su un piatto d’argento la scusa per lasciare le sue amiche, girarsi indietro e fuggire, fuori dalle mura del villaggio, chissà dove. C’era voluto un miracolo perché gli insegnanti l’acciuffassero in tempo, prima che si perdesse sul serio.

L’avevano riportata tutta tremante sul pullman, dove era rimasta seduta, in silenzio, con il volto bagnato di lacrime, per più di tre ore, da sola con l’autista, mentre i compagni visitavano il borgo in lungo e in largo, facendo foto, comprando cartoline e gadget, schiamazzando allegri.

Il viaggio di ritorno si era svolto in un silenzio irreale. Le maestre avevano proibito ai bambini di fare battute e parlare dell’accaduto, mentre Elena si vergognava troppo per spiccicare parola. Per rallegrare l’ambiente, l’autista aveva provato a mettere un po’ di musica, ma le maestre l’avevano costretto a desistere sostenendo che le classi erano troppo piccole per ascoltare la radio.

A casa, i genitori di Elena, dopo aver appreso la situazione, si erano convinti a far vedere la bambina da uno strizzacervelli. Per loro si era sempre trattato di una semplice mania, piuttosto che di una fobia, ma il timore che la figlia desse di nuovo spettacolo in pubblico, li costrinse a correre ai ripari.

Lo psicologo che visitò Elena ammise che c’era qualcosa che non andava, ma non riuscì a trovarne una causa precisa e si limitò a dire che la paura – o meglio, il terrore – dei luoghi bui e chiusi come prigioni, sotterranei, torri, cantine era piuttosto diffuso nei bambini, il cui inconscio celava nell’oscurità ciò che non voleva vedere.

L’uomo terminò l’esame sostenendo che l’imminente ingresso della bambina nell’età preadolescenziale avrebbe introdotto grandi mutamenti nella vita e con essi, forse, il superamento dei disagi emotivi maturati chissà come nell’infanzia. Auspicò che Elena vivesse come voleva, senza privazioni o proibizioni di sorta e, allo stesso tempo, si sforzasse di non lasciarsi inibire da paure e problemi soltanto supposti. Intascò trecento euro per il disturbo, poi sorrise alla bambina e le regalò una caramella all’anice, che Elena sputò disgustata dopo averla messa in bocca.

2.

Da bambino non avrebbe mai immaginato che un giorno le ragazze gli sarebbero piaciute così tanto. Anno dopo anno, le “femmine” che per tanto tempo aveva dileggiato e disprezzato, per la loro emotività e fragilità, si erano trasformate in creature incantevoli, degne della massima attenzione. Le forme procaci e i movimenti sinuosi sprigionavano un magnetismo che lo eccitava al solo pensiero, costringendolo a imbarazzanti ma piacevoli sessioni di autoerotismo, grazie alle quali poteva continuare a stare accanto alle sue coetanee – a scuola come fuori – senza saltar loro addosso come un lupo famelico.

La natura iniziava a fare il suo corso ma, per tutto il liceo, i legittimi tentativi di conquista erano stati frustrati dalla mancanza di attributi e soprattutto di esperienza. A Davide, come a tanti altri, mancava la capacità di diventare un personaggio che calamitasse le giuste attenzioni. Ben presto, rimorchiare diventò un’ossessione, ma questo servì solo a peggiorare la situazione e a rendere più goffi gli approcci. Più le ragazze gli piacevano, erano belle, vestite sexy e probabilmente disponibili, più lui era imbranato.

Quando capì che solo segnando il primo “gol” si sarebbe sciolto e avrebbe iniziato a fare la vita che voleva, andò definitivamente nel panico e ci rimase per parecchio tempo. A salvarlo pensò l’università, un ambiente tutto nuovo in una grande città, in cui Davide si trasferì per coronare il sogno di diventare architetto. Lontano da casa, scoprì una spigliatezza che non pensava di avere. Dopo aver imparato a rifare il letto, lavare i piatti e pulire il bagno, in una casa zeppa di matricole ansiose come lui di fare il grande salto nella vita vera, Davide apprese anche come interessare e intrigare una ragazza. Conosciuta sui banchi dell’università, Monica divenne la sua prima volta e poi una compagna inseparabile. Non era bella e neppure simpatica, ma a lui piaceva. Mentre gli altri la definivano ossuta e pettegola, lui la considerava snella ed estroversa. Anche se era piatta come una tavola e parlava in continuazione, come un antifurto, Davide adorava guardarla e ascoltarla per ore, mentre pensava a cosa sarebbe accaduto quando fosse sopraggiunto silenzio.

Tra un esame e l’altro, l’aveva portata spesso a trascorrere il week end al mare, nella casa in cui aveva vissuto con i suoi fino all’esame di maturità. Per la madre era stato un sollievo vederlo finalmente con una ragazza, dopo i tanti anni in cui aveva temuto che fosse gay.

L’idillio si era infranto quando Monica si era messa in testa, senza avere particolarmente torto, che Davide fosse innamorato più della sua presenza che di lei. In effetti, a lui bastava stare con una ragazza che lo facesse sentire a posto e tenesse lontani i fallimenti sentimentali dell’adolescenza.

Monica lo aveva scaricato quasi senza pensarci, in maniera brutale ma sincera, pur sapendo che difficilmente, a stretto giro di posta, avrebbe trovato un altro disposto a sorbirsi tutte le sue chiacchiere senza una adeguata contropartita “tecnica”.

Per Davide era stato uno shock, che lo aveva costretto a interrompere gli studi, da una parte per non vedere più Monica, che frequentava gli stessi corsi, dall’altra per l’impossibilità di concentrarsi su qualcosa che non fosse la sua ritrovata solitudine. A conti fatti, la relazione con Monica non era stata granché, soprattutto a letto, però era sempre meglio di niente, specie per uno bisognoso di attenzioni e conferme come lui.

Alla sessione di giugno avrebbe dovuto dare due esami, due degli ultimi, ma stare sui libri era fuori discussione con quell’umore. Tornò a casa con le pive nel sacco e la madre sempre tra i piedi a dirgli di chiamare Monica e provare a “fare la pace” e “rimettersi insieme” (come se dipendesse da lui).

Per non sentirla, iniziò a uscire e a stare fuori sempre più a lungo. Ormai era estate e soprattutto al pomeriggio era bello godersi il sole, alla spiaggia, in riva al mare. L’abbronzatura e i primi tuffi gli alzarono di parecchio il morale. Presto la Riviera si sarebbe riempita di turisti, in arrivo da ogni parte d’Italia, e Davide avrebbe potuto fare qualche nuova, interessante conoscenza, magari migliore della vecchia. Come previsto tanti anni prima, l’essere già stato con una ragazza gli dava fiducia sulla possibilità di averne un’altra.

La prima volta che la vide la notò perché era a piedi nudi. Molti turisti, soprattutto stranieri, andavano e venivano scalzi dalle spiagge, lei però emanava un fascino particolare, quasi un’aura, che la faceva sembrare un animale selvaggio, una belva feroce, una fiera, sul punto di spiccare il balzo decisivo sulla preda.

Anche senza scarpe era piuttosto alta e camminava flessuosa come una pantera, perfettamente a suo agio sulla superficie sudicia e accidentata della strada. Indossava una succinta veste rosa, che lasciava scoperte le spalle e oscillava invitante a ogni passo. Portava una borsa rossa a tracolla, ma il particolare che lo colpì di più fu il vistoso tatuaggio esibito sul braccio destro, una specie di torre sotto cui c’era scritto Devil (che lui per un istante scambiò per Davide).

Gli passò davanti, mentre lui era fermo all’uscita di un bar, dopo aver preso un aperitivo di ritorno dalla spiaggia, nel tardo pomeriggio. Lo notò appena, inarcando leggermente le sopracciglia, ma per Davide fu abbastanza. I grandi occhi scuri che si stagliavano accecanti nell’ovale perfetto del viso appena abbronzato e incorniciato da una cascata di capelli nerissimi dai riflessi bluastri, le curve ben tornite che trasparivano da sotto la veste, i movimenti perfettamente cadenzati, accelerarono a dismisura i battiti del suo cuore.

Iniziò a seguirla senza quasi rendersene conto, ipnotizzato dall’incidere disinvolto dei piedi nudi e l’incresparsi ritmico della veste. In breve, la ragazza si addentrò verso l’interno del paese fino a raggiungere un piccolo supermercato.

Davide fu tentato di entrare insieme a lei. Si trattenne a stento. Attese che uscisse e, quando la vide ricomparire con due sacchetti carichi di spesa, giocò il tutto per tutto. Si fece avanti con un sorriso (molto) impacciato e si offrì di aiutarla a portare la roba.

Per un tempo che gli sembrò interminabile, lei lo guardò senza dire niente. Poi commentò, in tono quasi scandalizzato: “Sei quello del bar… Mi hai seguita!”

L’abbronzatura aiutò Davide a mascherare il rossore che gli avvampò sulle guance, ma non l’imbarazzo. Solo l’atavico istinto di maschio cacciatore lo salvò dal dire: “Mi dispiace”. Ma proprio quando fu sul punto di proferire qualcosa di brillante, tipo: “Era impossibile non seguirti, sei troppo bella!”, lei riprese a parlargli dicendo: “Non fa nulla. Non sei certo il primo che lo fa. Grazie, comunque” concluse porgendogli i sacchetti.

Davide acchiappò le borse senza riuscire a celare una espressione di trionfo. Seguì la ragazza a ritroso lungo il percorso fatto poco prima e, durante il tragitto, scoprì che si chiamava Elena, aveva ventun anni, era di Torino e possedeva una piccola casa nell’entroterra del paese, dove veniva spesso in vacanza, quando non doveva studiare per l’università.

A intrigarlo di più fu però la scoperta, a un esame approfondito, che Elena sotto la veste non portava il reggiseno e forse neppure la mutande. La ragazza sicuramente aveva notato i suoi sguardi indagatori, ma sembrava non curarsene, continuando a chiacchierare come se nulla fosse, mentre lui le trotterellava accanto garrulo.

Quando le domandò del tatuaggio, Elena si esibì nel primo, vero sorriso dell’incontro. “Bello, eh!” esclamò con gli occhi che brillavano.

“Sì, molto” rispose lui, affrettandosi ad aggiungere: “come tutto il resto!”

Lei però rimase zitta, fingendo di non cogliere l’allusione o rifiutando l’approccio. Davide tentò di riguadagnare terreno tornando a parlare del tatuaggio: “Chi te lo ha fatto?”

“Black Jack, quello che ha il negozio in fondo al Budello.”

“È stato molto bravo” proseguì l’altro.

“Bravissimo!” rimarcò Elena, illuminandosi di nuovo.

“Ti piace?” si informò Davide, con malcelato interesse.

“Il tatuaggio moltissimo, lui decisamente meno” lo rassicurò la ragazza.

“Quando lo hai fatto?”

“Circa venti giorni fa.”

“Da poco!” commentò Davide, con una punta di stupore. “Non ti fa male?”

“Non più. Ci ho messo tanta crema i primi giorni ed è andato subito a posto.”

“Ma perché ti sei fatta tatuare proprio una torre?”

“È un luogo che mi piace e… mi rassicura” rivelò con espressione assorta, quasi sognante. “Un luogo in cui sto bene, molto bene.”

Scoppiò a ridere, quasi sguaiatamente. Davide le chiese il perché, ottenendo come risposta: “Una volta le torri mi facevano paura. Da bambina ho sofferto molto per questo, spesso non riuscivo neppure a dormire per paura di sognarle. Credevo fossero posti tetri, bui, maledetti, in cui accadevano cose orribili. Poi ho trovato quella giusta ed è stato… amore a prima vista!”

Davide la osservò in tralice, sconcertato. Ci mise un po’ a trovare una nuova battuta: “Mi ci vorrebbe anche a me un posto così… magari tra le tue braccia!”

Lei si lasciò andare a una effimera ma sincera risata, che permise all’altro di venire al sodo: “Sei fidanzata, Elena?”

“No” rivelò lei, “ma tu corri troppo per i miei gusti. E poi non sono una che ami molto la compagnia.”

Girando a destra, sotto un arco di pietra, lasciarono il lungomare e, sempre appaiati, arrivarono al parcheggio dove Elena aveva lasciato l’auto. La ragazza tirò fuori dalla borsa la chiave per aprire la portiera. Davide le passò in silenzio i sacchetti della spesa e la osservò caricarli sui sedili posteriori, indeciso sul da farsi.

Fu lei a parlare di nuovo: “Adesso lasciami andare a casa. Ti prometto che ti penserò in questi giorni. Poi, se è destino che dobbiamo rivederci e stare insieme, stai sicuro che qualcosa succederà. Ci sono forze molto più grandi di noi che agiscono per conto nostro. Intanto, grazie ancora per avermi portato la spesa” concluse, appioppandogli un bacio sulla guancia con uno schiocco da paura.

Salì in macchina sotto lo sguardo indecifrabile di Davide, che prima di vederla sfrecciare via, si abbassò al finestrino per sussurrare: “Ti cercherò dove ci sono le torri, sperando di ritrovarti presto.”

“Bravo!” esclamò lei, poi affondò il piede nudo sull’acceleratore e si dileguò nel traffico cittadino.

3.

Elena guidò fino a casa senza smettere di pensare a Davide. In giro per il paese ne aveva incontrati tanti che l’avevano approcciata con una scusa, per provarci alla prima occasione e tentare di portarla a letto. Lui però aveva qualcosa di diverso, qualcosa che forse sarebbe potuto servirle a raggiungere il suo scopo, se si fosse finalmente decisa a fare ciò che le veniva chiesto.

Davide pareva un tipo molto disponibile, quasi servizievole. Anche un po’ impacciato, per non dire imbranato, ma comunque molto motivato a dimostrarle il suo interesse. Probabilmente, con gli stimoli adeguati, avrebbe fatto qualunque cosa per lei. Di sicuro si sarebbe fidato. E questo era importante.

Lasciò l’auto nello spiazzo sotto casa e rientrò mettendo a posto la spesa. Si preparò da mangiare iniziando a pensare alla lunga notte che l’attendeva. Alla torre.

Di nuovo scoppiò a ridere pensando a che cosa fosse stata la sua vita fino a un paio di mesi prima. Un assurdo affastellarsi di turbamenti, angosce, paure, di cui non si sarebbe mai liberata senza quella gita nel bosco.

Erano le vacanze di Pasqua e i suoi l’avevano costretta a trascorrere qualche giorno con loro nella casa che possedevano nell’entroterra della Riviera dei Fiori. Elena però si era portata i libri per studiare, a maggio aveva un esame che voleva assolutamente passare, per essere più libera d’estate.

I primi due giorni era andato tutto liscio, poi in una notte di luna piena aveva iniziato a sentire uno strano richiamo. Non una voce, non un suono, ma qualcosa, una sensazione, che l’attirava a sé, da qualche parte, fuori dalla casa, chissà dove. La mattina del terzo giorno si era mossa, inoltrandosi nei boschi senza una meta precisa, ma con la certezza di dover andare avanti, come Alice nel paese delle meraviglie. O dei mostri.

Se non fosse stata nascosta dalle fronde degli alberi, sarebbe stato impossibile per lei arrivarle così vicino. Invece, ci finì proprio davanti, uscendo dal folto sottobosco in una grande radura circolare.

La torre era là in mezzo, un blocco squadrato di pietra grigiastra che si ergeva quasi fino al cielo. L’edificio era poco più che un rudere, ricoperto in buona parte dal muschio selvatico, ma il pesante portone di legno era aperto e sembrava invitarla a entrare.

La paura la colse all’improvviso e le fece venire le lacrime agli occhi. Iniziò a tremare, mentre il cuore le martellava furioso nel petto. Quando la testa prese a girarle come il cestello della lavatrice, Elena pensò di essere sul punto di svenire, o addirittura di morire, a cospetto del suo grande nemico, ma in un attimo passò tutto.

“Vieni” disse da dentro qualcuno che non poteva parlare. “Vieni da me” ripeté, suadente. “Vieni, Elena.”

Elena si guardò i piedi, gli scarponcini da trekking che si era messa la mattina, già presagendo che avrebbe dovuto fare parecchia strada lungo percorsi tortuosi e accidentati. Mosse alcuni timidi passi verso la torre, poi si fermò. Alzò gli occhi e vide che il portone era davanti a lei, se avesse allungato un braccio avrebbe potuto toccarlo. Se invece avesse allungato una gamba sarebbe entrata. Nella torre.

Si domandò come avesse fatto a ignorarne l’esistenza per così tanto tempo. Era sempre venuta in vacanza da quelle parti e non ne aveva mai sentito parlare. Ma forse, più che della torre, avrebbe dovuto preoccuparsi di scoprire l’origine della forza che la stava trascinando dentro.

Senza pensare all’assurdità del gesto, Elena si levò gli scarponcini, i calzettoni di spugna che portava sotto e, a occhi sgranati, varcò la soglia della torre a piedi nudi.

Dentro, non era così buio come pensava. La luce che filtrava dalle feritoie sopra di lei mostrava una rovina antica di secoli, con erbacce che crescevano dappertutto e piante rampicanti che ricoprivano gli interni delle mura come una tappezzeria. L’unica suppellettile rimasta nella stanza era la scala di pietra che, in un angolo, conduceva al piano superiore. Elena la raggiunse come in trance, incurante del terreno accidentato che calpestava scalza.

Salì i gradini con crescente disinvoltura, fino a raggiungere l’apertura che sbucava nella stanza superiore. Il pavimento di legno marcio, sostenuto solo da alcune travi di legno arrugginito, scricchiolò non appena ci appoggiò i piedi. Per un tempo interminabile, Elena si guardò intorno senza vedere nient’altro che le pareti di pietra della torre, con le quattro finestrelle che si affacciavano sui rispettivi lati della costruzione, e il soffitto sopra di lei. Poi notò qualcosa, per terra. Qualcosa di tremendamente importante, almeno per chi l’aveva portata lì.

Abbassando gli occhi sulla sporcizia che ricopriva il pavimento, scorse una forma scura, dai contorni irregolari. Una macchia. Di sangue?

Sangue vecchio di secoli, o almeno di anni, tanti anni. Sì, Elena sentiva che era una macchia di sangue. Il sangue di qualcuno che era morto lì. Morto, crepato, schiattato, dipartito. Probabilmente aveva urlato mentre gli veniva inflitto il colpo fatale che aveva inondato della sua inestimabile linfa vitale il sudicio pavimento che lei ora calcava scalza, come una ballerina in procinto di esibirsi in una danza macabra.

Quando finalmente si era mossa, spinta da una forza irresistibile, e aveva “intinto” i sudici piedi nudi nella tragica pozzanghera di sangue raggrumato, il diavolo si era compiaciuto, esternandole un’accoglienza travolgente.

“Benvenuta!” aveva esclamato dentro di lei. Poi, mentre Elena rimaneva immobile sopra di lui (o ciò che ne rimaneva), aveva iniziato a farla sua per sempre.

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