Racconto neonoir pubblicato sul quotidiano Il Secolo XIX del 5 luglio 2003 (versione ridotta e rivista del racconto Killer)
Quei maledetti gufi erano dappertutto. Potevo giocarci tutta la vita, a Zombies Attack!, ma con quei bastardi in giro non sarei mai riuscito a entrare in classifica. Appollaiati ai lati del cabinato, le dita adunche e la faccia da beccamorto, fingevano di seguire la partita con interesse, invece usavano il loro diabolico influsso per spedirti dritto in game over. Mica per contratto con il gestore della sala giochi, figurarsi. Portare sfiga per loro era una missione, come per bin Laden annientare l’America. Ma per me quel maledetto record era questione di vita o di morte. Registrare un buon punteggio a Zombies Attack! era infatti l’unico modo per entrare nei killer, la banda più temuta della città e più gettonata dalle ragazze.
Tutto il resto era un disastro. A scuola fisso che mi bocciavano un’altra volta. A calcio il mister mi teneva incatenato alla panchina, perché -diceva- la squadra andava già abbastanza male. Allo specchio avevo più brufoli delle chiappe di una cicciona, con le ragazze non battevo chiodo da tempo immemorabile, e a casa i miei non perdevano occasione di farmi il culo. Il mio futuro era nei killer.
Lo scopo di Zombies Attack! consisteva nello sterminare le fameliche orde di morti viventi che affollavano lo schermo dando la caccia ai pochi sopravvissuti all’olocausto e finendo di distruggere il mondo. L’adrenalina scorreva a fiumi mentre la pistola a raggi infrarossi faceva strage di mostri, ma la scena era talmente realistica che mi agitavo sempre e, quando iniziava a tremarmi la mano, ero spacciato. Sbagliavo un colpo dopo l’altro e gli zombi mi massacravano.
Quel giorno però stavo facendo quasi una buona partita. Dopo aver superato con facilità i primi sei livelli, mi ero ritrovato a metà del settimo, un luna park devastato, con abbastanza energia da sperare di farcela. Arrivare all’ottavo livello e scrivere il mio nome nella classifica di Zombies Attack!
Fu allora che arrivò il gufo. Lo riconobbi dal rumore che fece per frugare in una tasca del cappotto, tirare fuori una caramella e scartarla. Tremendo. Ma il peggio arrivò quando se la cacciò in bocca, iniziando a sbatterla fra i denti, alitandomi sul collo il suo fetore. Non lo sopportavo. Non potevo tollerare che un simile imbecille rimanesse in vita. Più che agli zombi, volevo sparare a lui. Mi girai per dirgli di togliersi dai piedi, di portare sfiga da un’altra parte, ma il gufo mi anticipò dicendomi di stare attento. Gli zombi mi avevano messo sotto e ormai non avevo quasi più energia.
«Sei morto!» sibilò il gufo appagato. Ma chissà come, resistevo. Uccisi gli ultimi cinque zombi con la mano che mi tremava e lanciai un urlo di gioia. Il gufo ammutolì. Il bonus per il passaggio di livello mi diede quello che mi mancava per entrare in classifica (e diventare un killer!). Raggiante, mi buttai a capofitto nel livello otto, uno stadio di calcio dall’aria per niente sportiva. Poi accadde qualcosa che forse era inevitabile. Lo schermo diventò nero e l’intera sala giochi piombò nell’oscurità. Black out.
La partita era finita, ma la mia mano sudata stringeva ancora la pistola. Quando la luce tornò, mi decisi a posarla. Il gufo era sempre lì, mentre Zombies Attack!caricava la schermata introduttiva. La classifica arrivò subito dopo. Il mio nome non c’era. Il gufo ridacchiò. «Che sfiga, non è rimasto niente.» Non disse altro perché il mio diretto gli chiuse la bocca. Crollò a terra come un sacco di patate marce sanguinando copiosamente dal naso. Troppo poco per la mia delusione. Lo massacrai di botte fino all’arrivo della polizia.
Adesso sono in una clinica psichiatrica. Mia madre subito non era d’accordo, poi si è lasciata convincere. Ha detto che era per il mio bene. Aveva ragione. C’è voluto un po’, ma stamattina al mio risveglio ho trovato una splendida sorpresa. Nella piccola sala giochi del bar della clinica hanno messo un cabinato di Zombies Attack! Potrò continuare ad allenarmi.
Marco Vallarino